Le scarse conoscenze geografiche dipendono da vari fattori ma senz’altro la principale responsabilità di questa situazione va attribuita a un insegnamento della geografia non adeguato. La riforma Gelmini ha prodotto più di un decennio di danni: si deve cambiare modello il più prima possibile.
Le lamentele sulla diffusa ignoranza geografica trovano sempre spazio sui media; sono, però, più rivolte agli aspetti nozionistici e al fatto che non si sappia localizzare una grande città o si confonda uno Stato con un altro.
Fanno scalpore i grossolani errori commessi da alcuni politici secondo i quali, solo per fare qualche esempio, l’Emilia-Romagna confina con il Trentino, Novi Ligure si trova in Liguria o Dublino nel Regno Unito, il Venezuela si scambia con il Cile e la Libia con il Libano.
Sicuramente la scarsissima conoscenza del nostro paese, come del resto del mondo – l’Africa, nell’articolazione degli stati che la compongono, è un continente del tutto ignoto ai più – rappresenta una lacuna molto grave; tuttavia non è meno grave quell’analfabetismo spaziale che impedisce di avere un minimo di dimestichezza con i saperi geografici, posti di fronte ai cambiamenti in atto come strumento necessario per comprendere meglio i grandi problemi mondiali (i problemi ambientali, socioeconomici, culturali e geopolitici) legati alla globalizzazione.
I danni della riforma
Le scarse conoscenze geografiche dipendono da vari fattori – e la comunità dei geografi non è priva di colpe – ma senz’altro la principale responsabilità di questa situazione va attribuita a un insegnamento della geografia non adeguato, dato spesso da docenti che a loro volta non hanno ricevuto una solida formazione in questa fondamentale, ma trascurata disciplina. Non da oggi è così. Quante volte possiamo trovare giornalisti che confessano di essere digiuni di geografia, di averla studiata male a scuola.
La presenza non proprio esaltante della geografia nel primo ciclo si trasforma in una carenza pesante nella secondaria di secondo grado, a causa soprattutto della riforma del ministro Mariastella Gelmini, avviata con l’anno scolastico 2010-2011. Ma è il ridimensionamento subìto nei licei, dove la geografia già era marginale, a essere preoccupante.
Mantiene la sua presenza nel primo biennio, ma con un carico orario ridotto: da quattro (due per la storia e due per la geografia) a tre ore, da suddividersi senza precisazioni fra le due discipline. E non si registra alcun recupero nel successivo triennio, dove la geografia rimane, come in precedenza, del tutto assente.
Inoltre, l’abbinamento istituzionalizzato nei licei tra storia e geografia – la cosiddetta geostoria – avrebbe potuto comportare un impulso a un più proficuo percorso tra le due discipline, che rappresentano sistemi efficaci di assetto delle conoscenze, per ordinare e dare valore alle informazioni che ci giungono dall’esperienza e dai sistemi mediatici.
Per conseguire i risultati migliori la riforma avrebbe dovuto cercare in qualche modo una continuità didattica nel triennio conclusivo, dove le ore di geografia avrebbero potuto svolgere un importante ruolo di formazione culturale, approfondendo in particolare gli aspetti economici e politici la cui conoscenza è oggi strategica per affrontare le sfide della globalizzazione. Purtroppo non è andata così.
O mutamenti peggiorativi dovuti alla riforma hanno provocato danni per così dire indiretti. Nonostante nei documenti ministeriali non ci sia alcun riscontro, neppure a favore di un curricolo storico-geografico condiviso, nella pratica – e principalmente nei libri di testo – il binomio storia e geografia si è alterato in geostoria: una denominazione che sta a indicare le situazioni nelle quali l’evoluzione storica risulta essenziale per spiegare un processo di trasformazione territoriale, ma che in realtà si traduce in una miscela non amalgamata tra una storia con qualche riferimento all’ambiente e una scarsissima geografia con sintesi storiche regionali.
Senza un progetto di didattica integrata, le due discipline si trovano attualmente limitate rispetto alle potenzialità che potrebbero esprimere nel processo di formazione dei cittadini (educazione al confronto e alla comprensione della complessità e dell’interdipendenza dei fenomeni), partendo dai problemi del mondo esaminati da differenti punti di vista, con diversità metodologiche e di ricerca. Un’occasione che da dodici anni se non di più continuiamo a perdere.
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