Tra i palestinesi nessuno dice più Hamas ma tutti dicono “la resistenza”. È già un successo per il gruppo terrorista che vuole trasformarsi nell’unico movimento di liberazione nazionale palestinese. Imita ciò che ha già fatto Hezbollah in Libano: da fazione teocratica del Partito di Dio a forza patriottica nazionale di resistenza, indicando a tutti il nemico assoluto: Israele.
Per i libanesi non era sempre stato così. Quando occupavano un pezzo del paese dei cedri, nemmeno i palestinesi di Arafat erano riusciti a tanto. Per spiegare l’egemonia di Hamas nella striscia di Gaza bisogna iniziare dal fatto che la popolazione è al 70 per cento composta da rifugiati provenienti da altre parti della Palestina, mentre gli abitanti della West Bank sono per lo più autoctoni. Gaza è un enorme campo profughi e la mentalità che vi prevale è quella della nakba, la “catastrofe” del 1948, quando i palestinesi dovettero fuggire dalle loro terre. All’entrata dei campi spesso sono appese le chiavi delle case abbandonate, a memoria di quel momento.
Rabbia e sogni
Le due generazioni che si sono succedute in esilio vivono con il sogno del ritorno, diventato un incubo covato nella rabbia e nella sete di vendetta. Quando i militanti di Hamas hanno sfondato le barriere, abbiamo visto tanti giovani uscire dalla “gabbia” assatanati, come indemoniati, su motorini e mezzi di ogni tipo, che hanno poi preso d’assalto in maniera selvaggia i kibbutz.
Hamas conta su tale rabbia di cui si nutre da anni. Allo stesso tempo possiede una lucida agenda politica: si rifiuta di diventare semplice gestore dell’enorme campo profughi di Gaza, nemmeno in cambio della “pace economica” promessa dai sauditi. Fonti della Reuters affermano che la decisione dell’azione è stata presa dopo l’assalto alla moschea di Al Aqsa da parte dell’esercito israeliano nel 2021. Da qui il nome dell’operazione “Tempesta al Aqsa”. Ma gli stessi che l’avrebbero fissata – come il leader a Gaza Yahya Sinwar – sembra che avessero offerto il dialogo tra il 2018 e il 2020.
Calcoli errati
Quella proposta pare sia stata respinta perché per la destra e l’estrema destra israeliane ormai il problema palestinese “non esisteva più”. Anche se adesso si dice che si trattava di una manovra per rassicurare Israele mentre preparava l’attacco, nondimeno nessuno andò a vedere. Fu un calcolo politico errato che oggi pagano gli innocenti.
Certo è difficile immaginare un dialogo con chi non riconosce il diritto di Israele ad esistere: è questo l’ostacolo politico più grosso per qualunque trattativa. Non bastava per Israele accettare il dialogo con chi definisce “terroristi”: era necessario che Hamas uscisse dal suo negazionismo assoluto, oggi ribadito. Uccidere bambini e neonati, come ha fatto a Kfar Aza, è segno della volontà di annientamento di tutto un popolo.
Tre fronti
Hamas è anche pronta a sacrificare i bambini di Gaza pur di nascondersi e salvarsi. La sua barbarie è evidente ma, come scrive Francesca Mannocchi, «rafforza la convinzione che chiunque vive dentro Gaza sia da considerare complice e dunque sacrificabile». Così Hamas riesce a disumanizzare tutto e tutti.
Oggi per Israele ci sono almeno tre fronti aperti: Gaza, West Bank e frontiera con il Libano. A Ramallah non si vota dal 2006. Il mandato di Abu Mazen è scaduto nel 2009 ma tutti hanno paura che Hamas vinca anche qui, come fece a Gaza. I sondaggi lo confermano. Come quasi tutti i partiti di origine Fratelli musulmani, Hamas non disdegna di passare attraverso le urne pur rimanendo un movimento autoritario. Da un punto di vista militare, Hamas prende esempio da Hezbollah: segue il mito della guerra libanese del luglio del 2006 in cui il movimento sciita costrinse Israele a ritirarsi dal Libano sud. Un altro riferimento è la battaglia di Shujaiyya del 19 luglio 2014 durante l’operazione israeliana “Margine di protezione”, quando riuscì a fermare un battaglione di carri. In tali contesti di guerra asimmetrica urbana, Israele ammette l’uso “sproporzionato” della forza a scopo di deterrenza. Ciò implica, contro i principi fondamentali del “ius in bello”, che non si fa alcuna distinzione tra obiettivi civili e militari. In queste ore gli Usa cercano di limitare tale uso della forza a Gaza ma purtroppo pare che dovremo assistere a qualcosa di terribile, simile alla battaglia di Falluja in Iraq o alla seconda campagna di Grozny in Cecenia. C’è da chiedersi: ma non è proprio ciò che cerca Hamas stessa?
D’altro canto nella West Bank ribolle la rivolta che ha avuto un rilancio circa due anni fa. I giovani della Lion’s den (la fossa dei leoni) sono pronti a riprendere le armi. Molti di loro si sono consegnati all’Anp ma basta un nulla per riaccendere la miccia. Dopo il 7 ottobre Israele deve aspettarsi qualcosa di meno spontaneo e più organizzato. Infine Hezbollah preme al confine libanese anche se non pare voler attaccare: un modo per non permettere a Israele di sguarnire il fronte.
Gli errori di Israele
Da un punto di vista politico il governo israeliano è da anni bloccato da una maggioranza poco lucida, legata ai partiti religiosi (che non mandano i propri figli a combattere), ai coloni e più recentemente ai suprematisti di estrema destra. Costoro hanno creato il caos: si sono alienati gli arabo-israeliani con le leggi sull’ebraicità dello stato; hanno indebolito l’esercito, la polizia e i servizi (per punire gli ufficiali critici); hanno ferito la democrazia con la polemica sui poteri della corte suprema. Ma il loro errore politico capitale è stato quello di illudersi – e illuderci – che la questione palestinese fosse risolta una volta per tutte. L’umiliazione dell’Anp e la colonizzazione di massa nella West Bank hanno cercato di rendere impossibile de facto la soluzione dei due stati. Nella West Bank ci sono oltre 140 insediamenti per un totale di oltre 450.000 coloni, senza contare Gerusalemme Est coi suoi 220.000. Inoltre circa 25.000 coloni vivono sulle alture di Golan. Tali insediamenti sono una decisione unilaterale non negoziata, che va contro gli accordi firmati in precedenza.
I demoni di Gaza
Il vero guaio è che tutto ciò rende la convivenza molto instabile e la soluzione dei due stati quasi impossibile: israeliani e palestinesi vivono fianco a fianco in tensione permanente e l’esplosione violenta è sempre in agguato. A Gaza occorreva oltrepassare la barriera e spingersi oltre qualche chilometro per raggiungere i kibbutz. In Cisgiordania ci si incrocia tutti i giorni e purtroppo ci si uccide anche quasi ogni giorno.
Salta agli occhi la responsabilità internazionale: quella di aver lasciato marcire Gaza preda dei suoi demoni che alla fine l’hanno posseduta. La distrazione su Gaza contagia il resto: da gennaio al 7 ottobre scorso oltre 200 palestinesi e 30 israeliani erano stati uccisi in Cisgiordania. David Grossman giustamente si chiede: «Sabato 7 ottobre 2023 è davvero andata perduta per sempre, o si è congelata per molti anni, la minuscola possibilità di un dialogo vero, della riconciliazione con l’esistenza dell’altro popolo?»
Nemmeno vivere uno accanto all’altro in maniera separata pare ora realistico. Sembra che i nemici della pace – da entrambe le parti – abbiano fatto di tutto per renderla impossibile. Come si potrà ritrovarla? C’è bisogno di un soprassalto di consapevolezza nel mondo arabo per uscire dall’immenso equivoco su Israele, del quale in troppi ancora non riconoscono il diritto all’esistenza. E c’è bisogno di una prospettiva dignitosa per i palestinesi. Solo la politica potrà dare a Israele la sicurezza di cui ha bisogno: 75 anni di guerra sono sufficienti a dimostrarlo. L’immensità di tale problema deve farci capire che c’è molto lavoro da fare in questo senso. La propaganda di parte fa sempre male, anche quando è prodotta dal più debole. Le polemiche binarie sugli schieramenti non aiutano né salvano. Davanti al sangue dei bambini quale può essere la “pace giusta” se non quella di far tacere le armi? Solo la fine dell’odio può fermare questi sacrifici umani.
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