- Si può scegliere di non votare per disinteresse, ma anche per indicare al mercato della politica che c’è una domanda non soddisfatta dall’attuale offerta partitica.
- Il voto alle elezioni regionali di Lazio e Lombardia ha stabilito la vittoria delle destre, certo, ma il crollo dell’affluenza indica un enorme spazio per nuove forze politiche o per una riconfigurazione di quelle attuali.
- L’astensione è uno dei possibili esiti della partita democratica, pienamente legittimo.
Hanno ragione loro, gli astensionisti. Si può scegliere di non votare per disinteresse, ma anche per indicare al mercato della politica che c’è una domanda non soddisfatta dall’attuale offerta partitica.
Un tipo di messaggio che può arrivare soltanto attraverso il segnale dell’astensione, altrimenti i risultati in percentuale oscurano il messaggio incorporato dai numeri assoluti.
Il voto alle elezioni regionali di Lazio e Lombardia ha stabilito la vittoria delle destre, certo, ma il crollo dell’affluenza indica un enorme spazio per nuove forze politiche o per una riconfigurazione di quelle attuali.
Come ha ricordato il politologo Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore, l’affluenza può anche risalire: in Emilia-Romagna nel 2014 ha votato il 37,7 per cento degli elettori, cinque anni dopo il 67,8 per cento.
Nel 2014, all’apice dell’ondata antipolitica, il renzismo non aveva davvero conquistato una regione ancorata a un’altra idea di sinistra mentre i Cinque stelle erodevano consensi ai delusi dal potere post-comunista e la Lega insidiava le province segnate dalle trasformazioni economiche.
Quindi l’astensione ha funzionato da segnale di distacco, richiesta di un cambiamento mai davvero arrivato.
Nel 2019 quel distacco tra la storica base di sinistra della regione e il blocco di potere che la governa da tutto il Dopoguerra stava portando alla possibile vittoria della Lega, ma l’alta posta in gioco e la mobilitazione quasi spontanea intorno alle effimere Sardine ha riportato alle urne molti che altrimenti sarebbero rimasti a casa.
L’astensione, insomma, è uno dei possibili esiti della partita democratica, pienamente legittimo. Le partite di calcio che finiscono in pareggio sono forse più noiose ma altrettanto valide di quelle che sboccano in vittorie o sconfitte nette.
L’analisi di Michele Serra su Repubblica, insomma, sottovaluta le complessità della democrazia rappresentativa: non è affatto vero che l’astensione indica soltanto qualunquismo (non mi interessa chi governa) o depressione (niente può cambiare in meglio).
L’astensione è domanda di cambiamento, richiesta di partecipazione. O almeno, è anche questo. Sicuramente insoddisfazione.
Peraltro, dobbiamo essere onesti: Michele Serra e tanti commentatori di sinistra sembrano dare per scontato che se ci fosse più partecipazione, ci sarebbero migliori risultati per le forze progressiste, perché il menefreghismo è sempre di destra.
Ma non c’è forse un po’ di speranza anche nel vedere che, nonostante la dominanza assoluta di queste destre nei media e nella visibilità, una quota consistente del paese rifiuta di aderire al “partito della nazione” di Giorgia Meloni?
Davvero Michele Serra e gli altri opinionisti rimpiangono un’epoca di partecipazione di massa nella quale l’elettore di sinistra votava qualunque candidato imponesse il partito?
Onestamente, io trovo salutare – per la democrazia e per la sinistra – che gli elettori con simpatie e valori progressisti abbiano smesso di accettare certi compromessi e smettano di offrire un voto di appartenenza che prescinde dai candidati e dai progetti politici.
Il voto inutile
Il centrosinistra non poteva vincere in Lombardia e non poteva vincere nel Lazio. Per le divisioni, più che per la scelta dei candidati.
L’ipotesi di usare Letizia Moratti per togliere la Lombardia a Lega e Fratelli d’Italia Italia era spericolata ma poteva avere un senso, a patto che fosse il candidato unico di uno schieramento largo.
Nel momento in cui quest’intesa si è rivelata impossibile, la sua campagna elettorale è diventata funzionale soltanto a garantire la riconferma del presidente uscente Attilio Fontana.
L’altro candidato, Pierfrancesco Majorino, è uno dei leader migliori di cui il centrosinistra dispone a livello nazionale, ma non aveva possibilità di successo.
Così come Alessio D’Amato, nel Lazio, è uno di quegli amministratori locali che sono rimasti l’unico asset di un Pd senza idee e senza leader carismatici, ma non aveva prospettive senza il sostegno di un Movimento Cinque stelle che ha preferito la corsa solitaria per testare la propria forza. Ipotesi velleitaria e fondata su una candidata sbagliata, Donatella Bianchi, che già in campagna elettorale ha detto di non voler fare politica regionale in caso di sconfitta (sicura).
Majorino, almeno, lascia un confortevole seggio da europarlamentare per l’ingrato mestiere di consigliere regionale di opposizione, applausi alla coerenza.
Di fronte a questa offerta politica, l’elettore di centrosinistra perché doveva andare a votare?
Personalmente, io ci sono andato per una lunga lista di ragioni tattiche (premio quel candidato, per limitare il risultato dell’altro e incidere sulle dinamiche del centrosinistra ecc.), ma non certo per entusiasmo, appartenenza o perché convinto che il mio voto cambiasse qualcosa.
Questo centrosinistra è morto, la buona notizia è che l’astensione indica che c’è spazio per qualcosa di nuovo. Non so se saranno Stefano Bonaccini o Elly Schlein a ricostruirlo intorno al Pd, ma di sicuro un’epoca è finita e per contrastare questa destra non basta ripetere ricette del passato o stare fermi in attesa che gli elettori delusi tornino a casa.
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