L’esperienza della Resistenza nel nostro paese ha liberato – almeno in parte – la coscienza collettiva dal complesso di complicità da cui sarà tragicamente segnata invece la coscienza tedesca. Di qui derivano una serie di implicazioni costituzionali, di cui oggi viviamo ancora l’eco, e che fanno della democrazia tedesca la più blindata tra quelle conosciute
Le piazze di un milione e mezzo di persone a protestare contro l’estrema destra in Germania sono sembrate stridere, con cinico tempismo, con la decisione della Cassazione per la quale il saluto romano sarebbe reato solo a determinate circostanze. In realtà, l’energica protesta tedesca da un lato, e il guanto di velluto italiano dall’altro, sono del tutto coerenti con le rispettive cornici di riferimento.
Ciò che allontana Italia e Germania è, infatti, il senso di colpa che ingombra l’esperienza tedesca e di cui invece l’Italia si libera presto, a costo pure di qualche minima forzatura. E questo non solo nell’esperienza costituente, ma naturalmente anche nella proiezione che di questa c’è nel tempo successivo, costituito.
Le posture diverse rispetto all’esperienza predemocratica affondano le radici nelle vicende storiche dei due paesi. L’Italia ha infatti conosciuto un movimento organizzato e popolare di resistenza al fascismo: non solo l’esperienza partigiana; si pensi alla rete politica clandestina che è vivissima nel sottotraccia del regime, tanto da essere da subito operativa nel 1943. In Germania, invece, un simile movimento è mancato, e gli episodi gloriosi e drammatici di resistenza che pure ci sono stati hanno avuto una natura del tutto occasionale e isolata.
La Resistenza
L’esperienza della Resistenza, così, può liberare – almeno in parte – la coscienza italiana dal senso di colpa e dal complesso di complicità da cui sarà tragicamente segnata, invece, la coscienza tedesca. Di qui derivano una serie di implicazioni costituzionali di cui oggi viviamo ancora l’eco, e che fanno di quella tedesca la democrazia più blindata tra quelle conosciute.
È emblematico, da questo punto di vista, l’art. 20, comma 4, della Legge fondamentale della Germania, a mente del quale «tutti i tedeschi hanno diritto di resistenza contro chiunque si appresti a sopprimere l’ordinamento vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio». Se la riflessione costituente italiana, coeva a quella tedesca, non avvertì il bisogno di costituzionalizzare un diritto di resistenza, è perché, in quella coscienza nazionale, la resistenza apparteneva al mondo dei fatti, di cui era superfluo affermare una natura giuridica.
Si spiega così, d’altra parte, anche la scelta del costituente italiano di non fare alcun riferimento espresso all’esperienza fascista, quasi a voler relegare la cosa a un «mai più» da evocare il meno possibile. Non è un caso che l’unico riferimento lo si trovi in una disposizione “transitoria e finale” della Costituzione; come a voler significare che il fascismo fosse stato un incidente del passato, e nel passato destinato a rimanere.
Se le manifestazioni contro l’estrema destra tedesca dicono in qualche modo che quella coscienza che ritenne di dover affermare solennemente un diritto di resistenza è ancora viva, la decisione della Cassazione italiana sul saluto romano è coerente con l’attitudine che sin dalla prima esperienza repubblicana si è assestata rispetto ai rigurgiti che non sono mancati.
La scelta esplicita dei costituenti di ricacciare il fascismo nell’ombra di un passato che non ritorna ha permesso di declinare la difesa della democrazia esclusivamente con riguardo a ritorni del rimosso storico.
Da questo punto di vista, la recente sentenza della Cassazione è del tutto coerente con quanto la Corte costituzionale affermava già nel 1957: «L’apologia del fascismo, per assumere carattere di reato, deve consistere non in una difesa elogiativa, ma in una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista». Così, il saluto romano integrerebbe reato soltanto se connesso a un pericolo concreto di riorganizzazione di quel partito.
Cosa cambia
Si può ritenere, però, che quello che era ragionevole nel 1957 non necessariamente lo sia ancora oggi, almeno per due motivi. Il primo è che nella prima esperienza repubblicana un rischio di riorganizzazioni più o meno macchiettistiche di quel partito era ipotesi più verosimile di quanto non lo sia ora, se non altro per questioni generazionali.
La seconda è che vi erano allora delle esigenze di pacificazione sociale che richiedevano un approccio più mite che oggi trova meno ragion d’essere, da un lato perché la galassia nostalgica è sicuramente più ridotta e isolata, e dall’altro perché dopo 78 anni di democrazia è legittimo attendersi un assorbimento maggiore dei suoi valori.
D’altra parte, oltre alla scelta esplicita del costituente, ce n’è anche una implicita, che vale la pena rilevare. È vero che si fa attenzione a non sporcarsi troppo la bocca col fascismo, ma in realtà tutto l’impianto valoriale della Costituzione è una potente dichiarazione di antifascismo. Nell’intenzione del costituente, infatti, la prima esigenza è quella di affermare in positivo tutti i valori che il fascismo aveva negato. In modo assolutamente consapevole, la carta dei valori costituzionali è il negativo della carta dei dis-valori del fascismo.
Chi scimmiotta il saluto romano – a parte l’aspetto ridicolo della cosa – con colpa più o meno cosciente, è a quei dis-valori che si sta riconnettendo. E, così, anche se non è impegnato in operazioni (invero assai difficilmente immaginabili) di ricostituzione del partito fascista, sta prendendo una posizione pubblica contraria in radice ai valori democratici e costituzionali.
Una posizione che in Germania non gli sarebbe consentito assumere pubblicamente, ma che in Italia, almeno fino a un certo limite, è tollerata. E tutto questo – ironia della storia – perché in Italia c’è stata la Resistenza.
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