- Cosa vogliono, i ragazzi con la vernice? Lanciare un segnale di allarme. Cosa poi effettivamente accade?
- Quanto di meno allarmante possa esserci: una bolla di conversazione dove per quarantotto ore qualcuno dice che hanno fatto bene e qualcun altro finge di scandalizzarsi.
- La questione ambientalista è a una svolta: o pone se stessa nei termini di una guerra interna, o è destinata a diventare una branca dell’intrattenimento culturale.
Se la vernice al Senato è stato un tentativo di raccogliere l’invito che, qualche mese fa, Andreas Malm faceva ai militanti ecologisti (abbandonare il dogma della non-violenza e abbracciare la lotta), viene il sospetto che ci sia un errore di fondo: e cioè che si stia prendendo per violenza quello che è, invece, teatro; e che si scambi le provocazioni per azioni.
Sono cose diverse: e confondere i mezzi con gli scopi può generare equivoci che poi nel tempo diventa difficile districare.
Cosa vogliono, i ragazzi con la vernice? Lanciare un segnale di allarme. Cosa poi effettivamente accade? Quanto di meno allarmante possa esserci: una bolla di conversazione dove per quarantotto ore qualcuno dice che hanno fatto bene e qualcun altro finge di scandalizzarsi (mentre, peraltro, i protagonisti subiscono conseguenze legali serissime).
Va così fin dal primo barattolo di zuppa lanciato contro un quadro.
Sono mesi che ambientalisti e media s’inseguono in un circolo vizioso dove i primi si prodigano per stupire i secondi che, a loro volta, li invitano a inventarsi qualcos’altro quando una provocazione ha smesso di fare notizia: un cerchio che, a volte, tra i funerali di un papa e un libro del principe Harry, finisce col sembrare più una categoria d’intrattenimento che una battaglia in atto.
Si ha l’impressione che certi gesti puntino più alla rappresentazione della realtà che alla realtà stessa, e che volendo sensibilizzare l’opinione pubblica, si finisca - più o meno involontariamente - a flirtare con i suoi salotti.
Può sembrare assurdo, ma non c’è proprio più alcun bisogno di sensibilizzare nessuno sulla catastrofe ecologica.
Sono anni che - in buona o in cattiva fede - ne parlano tutti: scrittori, registi, giornalisti, organizzatori di festival.
Anche le mie zie pugliesi, diploma di terza media e nessuna simpatia per Greta Thunberg, escono in questo gennaio oscenamente caldo e sanno che è un disastro e che noi c’entriamo. Tutti sanno. Anche i politici - soprattutto i politici - sanno. Il problema è casomai, esattamente come con l’animalismo, è che per cambiare le cose il sapere non basta.
La fase della sensibilizzazione è finita. Il problema non è (più) il sapere, ma il potere. Un potere che a un necessario ripensamento dei mezzi di produzione oppone interessi a cui certi gesti mediatici riescono solo ad animare l’Instagram.
Non stupisce che, quando a ottobre alcuni ambientalisti hanno compiuto un raid contro quaranta suv nel quartiere Crocetta di Torino, se ne sia parlato infinitamente meno di quanto si parli ora della vernice al Senato.
Per quanto possa essere sbagliato o disdicevole ricordarlo, la questione ambientalista è a una svolta: o pone se stessa nei termini di una guerra interna, o è destinata a diventare una branca dell’intrattenimento culturale.
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