Nel nostro paese c’è una corrente di “realisti” che pensano negli scenari internazionali le idee morali non contino, ma che tutto dipenda solo dai rapporti di forza. Ecco perché sbagliano a non riconoscere con chiarezza torti e ragione
Chissà quando si poserà la polvere della battaglia, in Israele, in Palestina, in Ucraina. Speriamo molto presto. Ma la polvere si posa nelle nostre menti e nei nostri cuori tutte le sere quando ci addormentiamo sicuri, dopo aver seguito dei dibattiti in tv, dopo le ultime notizie.
La polvere si posa, per alcuni di noi, sul senso di colpa per il nostro privilegio: non siamo in guerra, non abbiamo ruoli e responsabilità politiche. Il massimo che possiamo fare è discutere e veder discutere, magari indignarci, forse prendere posizione, talvolta testimoniare sostegno.
L’importanza della morale
Forse, però, anche così, specialmente se prendiamo parola, abbiamo doveri. Per esempio, un dovere di verità. Uno dei modi di offendere le vittime di una guerra è stravolgendo la verità. Non voglio indagare qui i meriti e le colpe, come fanno molti. M’interessa la cornice più ampia dalla quale si considerano i meriti e le colpe.
Nella discussione pubblica italiana c’è una modalità di pensiero (incarnata in alcune agguerrite figure, ma qui non rilevano i singoli) che potremmo definire realismo perché si richiama (in maniera spesso vaga) agli orientamenti realisti nelle teorie delle relazioni internazionali.
I realisti ripetono tre tesi. Primo: le guerre hanno cause, spesso uniche o comunque univoche: azioni precedenti di stati, leader, popoli, a cui le guerre sono reazione. E dall’analisi delle cause i realisti traggono previsioni e suggerimenti, che graziosamente offrono all’opinione pubblica e al Principe.
Secondo: le opinioni morali non contano. Solo i rapporti di forza muovono la politica internazionale.
Terzo: proprio per questo, l’unica cosa sensata da fare è proteggere i propri interessi nazionali.
Non si capisce bene perché chi sostiene tutto questo si affanni a parlare. Se valgono solo rapporti di forza, e la forza è inarrestabile (Davide non potrà mai vincere su Golia), non c’è niente da fare: non si possono proteggere gli interessi nazionali delle nazioni deboli (e noi potremmo essere tali).
Tanto varrebbe tacere, tanto il potere non si arresta di fronte alle parole. Gli Ateniesi ascoltano il discorso dei Meli solo perché Tucidide possa scrivere una bella pagina.
Ma, di fatto, le idee morali hanno influenza. Anche il governante più cinico sente il bisogno di giustificare la propria aggressione invocando nozioni morali – i diritti presunti dei suoi connazionali presenti nel paese aggredito, per esempio, o il diritto di professare certe religioni facendone leggi dello stato ed escludendo chi crede in altre divinità.
E se lo fa vuol dire che pensa che almeno alcune persone – alcuni dei suoi soldati, dei suoi cittadini, dei cittadini degli altri stati – saranno influenzati dai suoi proclami, perché fanno differenza fra il puro assassino e chi pretende di morire per delle idee. Il realista autentico non può negare che ideali, ossessioni, potenti sentimenti morali sono mosse dell’azione umana altrettanto potenti della minaccia del potere. Il realista può non credere a tutto questo, perché è (o si sente) più furbo. Ma gli altri ci credono. Questo è l’errore di fatto dei realisti.
Gli altri errori
Ma ci sono anche errori di diritto, cioè etici, che dall’errore di fatto seguono. Innanzitutto, negare l’influsso della moralità significa dire a chi rischia la vita che ciò che gli capita è del tutto privo di senso, anche il senso derivante dalla lotta fra idee diverse. Così si aggiunge al danno la beffa: siete vittime, e di una catastrofe senza senso.
Inoltre, negare la possibilità di distinguere fra aggressori e aggrediti (pur sapendo che le due posizioni possono venire occupate in momenti diversi dagli stessi gruppi), fra legittimi regimi democratici (che pure possono sbagliare) e dittature, fra azioni di guerra giusta e atti di terrorismo (o di guerra ingiusta) significa legittimare le idee morali sbagliate, togliendo presa alle idee giuste.
Si dirà: ma non ci sono idee morali sbagliate e giuste. Non c’è una verità morale, anche fosse la verità storica dei nostri sentimenti morali frutto della nostra storia. Ma se non c’è una verità morale, anche minima, e tutto è potere, di nuovo: a che vale parlare? Prima o poi il potere vincerà. Aspettiamolo al riparo. Senza neanche dare consigli.
Ma se invece ci permettiamo di parlare, se abbiamo l’ardire di ragionare e prendere parola, dal luogo confortevole e caldo dove siamo stati tanto fortunati da nascere, dobbiamo a chi è vittima il rispetto di distinguere con chiarezza torti e ragioni, evitando la rassegnazione che tutto confonde.
Pensando magari alla rabbia che proveremmo se chiedessero a noi di rassegnarci e all’evidenza che avrebbe nella nostra mente la verità del sopruso che subiamo e dei diritti che invochiamo. Questo contraddistingue le democrazie sane: la capacità di identificarsi nelle vittime, tanto quelle fra i suoi cittadini quanto quelle fra i cittadini di altri stati, tanto le vittime del passato quanto le vittime del futuro.
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