- Oltre a patire i risultati di un trentennio di disinvestimento, alla scuola tocca sopportare anche il ritorno di ricette reazionarie e passatiste, e persino le opinioni sgangherate di Paola Mastrocola
- La crisi della scuola è anche e soprattutto la crisi del dibattito pubblico sull’istruzione. Ma se continuiamo a dare credito a intellettuali bolliti e politici responsabili dei disastri attuali, sarà difficile invertire la tendenza.
- Fa impressione che alcune idee considerate ormai indecenti del neoliberismo classico, come il “buono scuola” per dare alle famiglie la possibilità di scegliere l’istruzione privata, o strampalate del nuovo classismo come il liceo made in Italy, abbiano spazio e legittimità nel dibattito pubblico, invece di qualunque altra discussione qualificata sull’innovazione didattica e sull’inclusione scolastica.
La scuola ricomincia e lo fa con i soliti problemi: cattedre ancora non assegnate a settembre, classi troppo numerose, professori pagati pochissimo (un pochissimo che diventa miserevole, al netto dell’inflazione in crescita), pareri di Paola Mastrocola.
Partirei proprio da quest’ultima piaga per discutere poi delle altre. Il 6 settembre è uscita un’intervista a Paola Mastrocola a firma di Marianna Rizzini sul Foglio.
L’insegnante in pensione (da un bel po’ di anni) Mastrocola, autrice di vari libri superficiali sulla scuola, La scuola raccontata al mio cane (2004) a Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, fino a all’ultimo fortunato e infelice scritto a quattro mani con il marito Luca Ricolfi (Il danno scolastico), intona sempre la stessa lagnatio: si lamenta che la scuola non sia un posto per professori carismatici che discettano di letteratura, fregandosene di ogni altra cosa: «Proviamo a riproporre Goethe invece di riempire la scuola di sportelli, corsi, esperti. Ci sono troppe voci. Torniamo all’essenziale, alla concentrazione su materie meravigliose, ora strette tra mille progetti. È un cambiamento di mentalità, ma secondo me è questa è l’urgenza, oggi».
È davvero una sua fissazione personale, quella per cui a scuola si dovrebbe insegnare quasi esclusivamente Letteratura Con Grandi Maestri che ci fanno innamorare di Dante o Leopardi. Il resto, persino storia, è una mezza perdita di tempo; lei per esempio confessa nel Danno scolastico parlando della sua formazione universitaria per diventare docente: «Nessuno pensava al dopo, al lavoro che, con quegli studi, avremmo ottenuto. Eravamo paghi di quegli studi, totalmente immersi, come se non ci fosse un fine. Questa assenza di finalità, di concretezza, era l’aria che respiravamo. Un tempo sospeso. Così, studiai solo letteratura, e poco altro. Mai un esame di storia, neanche l’ombra. Storia antica, storia medievale, storia contemporanea: nulla».
Verso Giorgia Meloni
C’è da dire, che dopo una certa età, e Ricolfi e Mastrocola hanno più di 65 anni, non esistono prove standardizzate tipo Invalsi o Pisa, per testare la preparazione, e quindi saggiare la loro ignoranza di questioni scolastiche è un esercizio empirico; non del tutto impreciso però, perché da un’analisi dei loro testi, la misconoscenza della storia della scuola degli ultimi 30 anni è riscontrabile soprattutto per quello che riguarda gli aspetti didattici.
Eppure Luca Ricolfi, arrivato solo in anni recenti a un interesse per la scuola, spronato dalla moglie, viene considerato da molti, compreso lui stesso, ministro in pectore di un possibile governo Meloni. Intuito infatti il cambio climatico nella politica, si è spostato molto in fretta dall’emisfero progressista, per cui è stato reclutato ai tempi del Covid come editorialista di Repubblica – e i suoi libri di intervento contro il politically correct sono stati addirittura allegati al giornale –, al polo postfascista, per cui essere estensore dichiarato dei programmi politici di Fratelli d’Italia. La parte a sua firma degli Appunti per un movimento conservatore, uscito nella primavera 2022, che conteneva il cuore della proposta politica di Fratelli d’Italia, s’intitolava Libertà di emergere; si trova ancora in rete.
Insomma la scuola italiana ricomincia con i soliti problemi, il classismo, l’opinionismo di chi dovrebbe occuparsi di politiche scolastiche in modo serio, e la sua fragilità critica è talmente consueta da poter essere raccontata con toni da commedia. L’anno scolastico in Ex cattedra di Domenico Starnone (1985) iniziava con una scuola tutta rinnovata e pronta all’avvio, con un unico problema: una carenza drammatica di docenti.
Similmente Domani interrogo, appena uscito per Marsilio, di Gaja Cenciarelli, racconta come le buone intenzioni degli insegnanti dopo l’estate si sfarinino dopo i primi minuti in classe, di fronte alle carenze strutturali del sistema scolastico.
L’eterna crisi
Ma, al netto di questo racconto appunto talmente ciclico da essere ormai letterario, c’è un elemento davvero osceno che fa sì che la scuola italiana sembri replicare le crisi del passato lontano e recente.
È che i fautori del disastro sistemico che viene raccontato nelle cronache di inizio anno è un esito anche e molto di un disinvestimento consapevole e determinato – di soldi e di idee – perpetrato da una classe politica che in questa campagna elettorale e forse nei prossimi parlamenti sembra vivere una seconda giovinezza: da Maria Stella Gelmini e Giulio Tremonti a Letizia Moratti a Matteo Renzi, i risultati delle loro riforme sono diventati ben visibili nel lungo periodo.
E fa impressione che alcune idee considerate ormai indecenti del neoliberismo classico, come il “buono scuola” per dare alle famiglie la possibilità di scegliere l’istruzione privata, o strampalate del nuovo classismo come il liceo made in Italy, abbiano spazio e legittimità nel dibattito pubblico, invece di qualunque altra discussione qualificata sull’innovazione didattica e sull’inclusione scolastica.
© Riproduzione riservata