Il centrodestra in Italia esiste. Per alcuni versi può essere considerato destra-centro ma c’è ed è coeso. Il centrosinistra invece non esiste più, inutile illudersi. Quello che c’è è il tentativo di una nuova alleanza che ruota attorno al rapporto Pd e M5s. La si può chiamare campo largo, campo giusto o in tutt’altro modo, ma deve essere chiaro che non si tratta più del vecchio centrosinistra. Di conseguenza il software politico che si utilizzava per tenere assieme i partiti di centrosinistra (con o senza trattino) è obsoleto e inservibile. La griglia di analisi e di interpretazione deve essere del tutto rinnovata, così come lo stesso linguaggio politico.
Alleanza instabile
È la ragione per la quale molti commentatori si perdono nel descrivere le convulsioni tra Pd e Cinque stelle, concentrandosi sul “chi ci crede e chi non ci crede”: una domanda inutile. Dentro il Pd la segretaria Elly Schlein pare l’unica ad averlo compreso, mentre la vecchia classe dirigente (compresi i giovani-vecchi che la compongono) sembra ancora ingabbiata nei vecchi schemi del defunto centrosinistra.
D’altronde cosa ci si doveva aspettare dopo gli innumerevoli litigi tra alleati? Non è accaduto esattamente quello che si prevedeva: la fine di un’instabile e rissosa alleanza? Oggi ciò che rimane dell’ex centrosinistra non ha più i voti, ma l’esistenza dei Cinque stelle di Conte offre una rinnovata possibilità di opporsi al centrodestra: si tratta di un M5s di secondo tipo, dove trovano più spazio leader come Roberto Fico o Alessandra Todde, neopresidente sarda.
Tuttavia per cogliere tale opportunità va cambiato tutto: il modo di approcciarsi, il tipo di negoziato, i modelli mentali (del tipo: vocazione maggioritaria), la pretesa di fare il senior partner. In fondo si tratta di creare una nuova cultura politica: è molto difficile ma è anche un vantaggio, un momento propizio di rinnovamento della politica stessa.
L’usato sicuro
La differenza tra il centrodestra e tale (futura) nuova alleanza sta nel fatto che il primo può continuare con il vecchio modulo, una specie di “usato sicuro” stabile che lo ha portato alla vittoria. La seconda invece deve cercare nuove parole d’ordine, nuovi programmi e una comunicazione del tutto innovativa. Ciò che è difficile può diventare anche una chance per rappresentare meglio il mondo in cui viviamo, che sta totalmente cambiando.
Guerre e deglobalizzazione sono i due fatti maggiori con cui confrontarsi. Il centrodestra italiano tradizionalmente non ama le guerre. Berlusconi partecipò alla Guerra del Golfo del 2003 in maniera riluttante e per lealtà verso gli Usa. Non voleva nemmeno quella contro la Libia e, com’è noto, mantenne sempre buone relazioni con la Russia e con la Turchia. Nella tradizionale politica di centrodestra la guerra si fa soltanto quando non ci si può sottrarre a una pressante richiesta americana. In tale chiave si può leggere anche il riavvicinamento a Israele, voluto da Berlusconi e che ribaltò la classica politica filoaraba (o “equivicina”) della Prima Repubblica in Medio Oriente.
Ciò in definitiva ha influenzato lo stesso Pd attuale. Il vecchio centrosinistra (quello della Seconda Repubblica) invece non ha disdegnato di utilizzare lo strumento militare, come si è visto nei Balcani, quasi come un modo di dimostrare di essere “cresciuto” e di aver capito il nuovo mondo in cui stava. Una specie di sdoganamento nei confronti del vincolo atlantico esterno, una sindrome di cui il Pd ancora oggi non si libera. Ciò ha creato profonde spaccature interne alla sinistra e anche con il mondo cattolico (non solo quello progressista), e ha spinto molti elettori all’astensionismo o verso il M5s.
LaviadelcampolargoègiustaTali fratture rimangono, si stanno riproponendo nella relazione con i Cinque stelle e andranno sciolte. In sintesi: se su politica estera e di sicurezza il centrodestra deve ritrovare l’ambizione di un’autonoma iniziativa politica nel nostro estero vicino (almeno Mediterraneo, Medio Oriente, Balcani e Africa nord-saheliana), la nuova alleanza del campo largo deve fare molta più strada.
Si tratta cioè di elaborare una nuova visione di politica estera e di sicurezza al passo coi tempi, svincolata dalla ripetizione degli schemi di ieri e in un mondo frammentato e contradditorio. Sulla deglobalizzazione il centrodestra ha qualche difficoltà in più: il reshoring o friendshoring lo favorirebbe a patto di abbandonare (o riformare del tutto) la vecchia politica sovranista con le sue tentazioni autarchiche.
Si pensi soltanto alla difficile relazione con la Francia, con continui balletti e bisticci anche sul piano economico, quando invece una forte alleanza tra i due sistemi industriali favorirebbe entrambi anche dal punto di vista tecnologico e della ricerca. Lo stesso si può dire della Germania. La nuova alleanza attorno al Pd-M5s avrebbe invece su tale tema una strada più libera: un mondo fluido, in cui alleanze economico-finanziarie si legano e si disfano con molta facilità, e in cui si possono creare legami anche paradossali ma efficaci.
Ciò faciliterebbe un’economia estroversa come la nostra, basata su accordi di esportazione e su joint venture congiunte all’estero o di presenza in nuovi terreni. Molto di quanto detto dipende dal rapporto tra Italia e Stati Uniti. Su tale delicata questione le due coalizioni devono stabilire delle nuove linee rosse (tra lealtà e autonomia), possedendo entrambe fragilità interne: da una parte i filorussi (e filoautoritari) del centrodestra; dall’altra la posizione indefinita del M5s. In tale schema binario non trova spazio – per ora – un “terzo polo” centrista, malgrado i notevoli sforzi fatti.
La polarizzazione
Resta da definire il livello di polarizzazione delle coalizioni. Nel centrodestra la resilienza di Forza Italia (merito della tessitura di Antonio Tajani) ha riequilibrato le intemerate della Lega salviniana ed è stata funzionale al tentativo della premier Giorgia Meloni di “normalizzare” Fratelli d’Italia allontanandosi dalle punte sovraniste ed euroscettiche.
Nella coalizione opposta invece è ancora tutto da fare: all’interno sia del Pd che del M5s permangono spinte radicali su varie politiche. Ciò spiega le difficoltà della coalizione nell’allargarsi ad Azione e/o Italia viva, queste ultime entrambe tentate dal centrodestra se non fosse per il timore di essere fagocitate da una rediviva Forza Italia (fallita l’ambizione di assorbirla loro).
A parte la ricerca di spazio al centro – ora difficile ma che prima o poi riuscirà – una minore eccitazione polarizzante potrebbe permettere alcune politiche bipartisan basate sull’interesse nazionale, ad esempio in politica estera o per ciò che riguarda lo sviluppo dell’Africa.
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