Le polemiche dopo la commemorazione della strage non riguardano solo la posizione del premier e dei suoi compagni di partito. Una parte del giornalismo cerca di posizionarsi in maniera ambigua riproponendo una stanca e surreale equiparazione tra destra e sinistra in un contesto in cui la destra ha potere e responsabilità
La polemica sulla commemorazione della strage di Bologna ha lasciato rivoli di amaro in bocca. Non solo per l’assurdo e offensivo vittimismo della presidente del Consiglio – come se fosse lei la vittima e i famigliari delle vittime gli aggressori – ma anche per i micro-posizionamenti degli attori in campo.
Stefano Folli ha giustamente deplorato la posizione di Giorgia Meloni, sostenendo che si tratta dell’ennesima occasione persa in cui la presidente del Consiglio avrebbe potuto e dovuto uscire dalla logica settaria per fornire una visione più inclusiva. Che questa aspettativa sia malriposta o plausibile non è qui il caso di discutere.
Fa, invece, più riflettere il prosieguo dell’articolo di Folli in cui, come da prammatica, alla critica verso la presidente del Consiglio si accompagna un’uguale e contraria critica verso la sinistra. Folli se la prende con Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei famigliari delle vittime, per la sua posizione troppo dura verso il governo (per la continuità neofascista con gli autori della strage e per la presunta ispirazione pidduista della riforma della giustizia).
Equivalenza perversa
A prescindere da quello che si pensi della tesi di Bolognesi, ciò che lascia interdetti è la mossa di Folli. Anche se ammettessimo che la posizione di Meloni e quella di Bolognesi siano ugualmente sbagliate – sebbene di senso opposto – è totalmente assurdo denunciarle allo stesso livello. L’una è la posizione della presidente del Consiglio, cioè la rappresentante del paese che parla in veste ufficiale; l’altra la posizione di un presidente di un’associazione che ha tutto il diritto di esprimere una posizione partigiana, anche estrema. La presidente del Consiglio ha doveri di rappresentanza che l’associazione non ha.
Ormai abbiamo imparato a conoscere la strategia meloniana, solo in parte aggiornatasi al nuovo ruolo: incolpare altri, fare la vittima, rigirare la frittata. Sulla sostanza della questione hanno già chiarito su questo giornale Marco Damilano e Vitalba Azzollini. Ciò che lascia perplessi è, piuttosto, la reazione di una parte del giornalismo italiano. La strategia cerchiobottista non è una forma di imparzialità, come pretende di essere. Si tratta piuttosto di un finto centrismo che, se obbligato a dover prendere posizione contro la destra, si tutela criticando ugualmente la sinistra. In tal modo gli eventuali torti delle due parti sono equiparati.
Così viene condonato chi la spara più grossa o chi, avendo più responsabilità, dovrebbe attenersi a standard più esigenti. Questa equivalenza perversa non è una novità. Negli anni ’90, nel dare credito a un’illusoria rivoluzione liberale berlusconiana, il cerchiobottismo terzista lamentava la mancata evoluzione socialdemocratica della sinistra. Ora alza debolmente il sopracciglio dopo aver salutato la svolta moderata di chi moderato non è mai stato.
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