- Quasi otto anni di carcere per Mimmo Lucano. Questa è la richiesta del pubblico ministero di Locri, richiesta che a molti è parsa per lo meno spropositata rispetto alle accuse rivolte all’ex sindaco.
- Vorrei provare a ragionare su alcuni aspetti che meritano una riflessione su un tema, quello del rapporto tra magistratura e politica, che è di stretta attualità e che appare come il cuore del processo.
- La cosa che colpisce nella richiesta del pm è che si ritiene illegittima la condotta del sindaco perché finalizzata al consenso elettorale, come se accrescere il consenso fosse disdicevole o, peggio, un reato.
Quasi otto anni di carcere per Mimmo Lucano. Questa è la richiesta del pubblico ministero di Locri, richiesta che a molti è parsa per lo meno spropositata rispetto alle accuse rivolte all’ex sindaco, ammesso, e non concesso, che abbia commesso tutti, o solo in parte, i reati contestati. Vorrei provare a ragionare su alcuni aspetti che meritano una riflessione su un tema, quello del rapporto tra magistratura e politica, che è di stretta attualità e che appare come il cuore del processo.
Il ruolo dei prefetti
La domanda è: come è nato il processo? È nato su input politico? Il procuratore di Locri assicura di no e porta a sostegno della sua tesi l’invio di una «relazione prefettizia molto dettagliata» da parte del prefetto di Reggio Calabria. È ovvio che la procura della Repubblica di Locri, di fronte a una notizia di reato che proviene da una fonte così qualificata e autorevole doveva agire, e ha fatto bene ad agire. Ma dire che l’input non è politico vuol dire disconoscere il ruolo e la funzione che i prefetti hanno avuto nella storia d’Italia dall’Unità a oggi.
Memorabile è la denunzia di Salvemini contro l’uso improprio dei prefetti da parte di Giolitti, «il ministro della mala vita», com’ebbe a definirlo. Per non parlare del ruolo dei prefetti in epoca fascista o in molti anni dell’Italia repubblicana tanto da provocare addirittura la richiesta dell’abolizione delle prefetture. La prefettura è un organo periferico del ministero dell’Interno e perciò il prefetto ha un ruolo eminentemente politico, che non vuol dire partitico, ma politico nel senso più alto del termine. C’è solo da appurare se è stata un’iniziativa autonoma o se sia stata sollecitata.
Il pubblico ministero, da parte sua, ha incentrato tutta l’accusa sostenendo la tesi che Lucano ha messo in piedi quel sistema d’accoglienza perché voleva creare uno strumento clientelare basato sullo scambio di posti di lavoro per ricavarne un vantaggio elettorale, e a conferma di questo suo assunto ha richiesto al tribunale l’acquisizione di un articolo di giornale che annunciava la candidatura di Lucano alle prossime elezioni, richiesta giustamente respinta dal presidente. Il modello Riace di accoglienza verso i migranti non nasce dal nulla, nasce da una capacità antica dei calabresi, di accogliere gli stranieri, quelli che vengono da altri mondi o da altre regioni d’Italia. Lucano è figlio di questa storia antica, e si può capire quello che ha fatto solo se lo si inquadra in questo contesto.
Il modello Riace
La cosa che colpisce nella richiesta del pm è che si ritiene illegittima la condotta del sindaco perché finalizzata al consenso elettorale, come se accrescere il consenso fosse disdicevole o, peggio, un reato. Si scontrano due visioni. Da una parte quella di un magistrato che legge con la rigidità degli articoli del codice penale condotte che sono politiche e che non debbono cadere sotto l’imperio della magistratura.
Dare lavoro ai giovani di Riace e aiutare i migranti può essere censurabile dai riacesi – e lo hanno fatto non votando la lista sostenuta da Lucano alle ultime elezioni comunali – ma non può essere censurabile in alcun modo da un pm. L’accusa a Lucano è di «aver costruito il welfare dei riacesi. La continua disponibilità alla ricezione dei migranti è l’economia associata all’accoglienza». E allora non li può allontanare «per un’immagine pubblica che si è creato, e soprattutto perché deve tenere in piedi un sistema che fa lavorare i riacesi. I quali stanno zitti». Queste – mi perdoni il pm – sono tutte accuse politiche e ideologiche che può legittimamente fare da cittadino della Repubblica italiana ma che non possono essere avanzate nell’aula di tribunale vestendo la toga.
Tra politica e magistratura non ci può essere un’invasione di campo, o un’intromissione, né da una parte né dall’altra. È questo il cuore del problema dell’accanimento della pubblica accusa. Non è la prima volta che ciò accade. Ma in questa, come in altre vicende che hanno devastato la politica regionale, c’è una responsabilità della politica che ha delegato alla magistratura la definizione dell’onorabilità degli amministratori o iscritti accusati e che non ha saputo difendere i propri rappresentanti quando sapeva essere innocenti (e ovviamente ha fatto bene a non difendere gli indifendibili).
La delega, come sappiamo, c’è stata anche in tema di lotta alla ‘ndrangheta, ed è stato un male per la politica e la magistratura. C’è in arrivo in libreria, edito da Rubbettino, un libro di Danilo Chirico, Storia dell’anti ‘ndrangheta, che dimostra come sia stata la politica a fare la lotta alla ‘ndrangheta mentre la magistratura ha girato la testa dall’altra parte e come questo rapporto si sia invertito negli ultimi anni. Forse è arrivato il momento di riequilibrare i rapporti e di tornare al rispetto dei rispettivi ruoli sanciti dalla Costituzione.
© Riproduzione riservata