- Il primo atto del governo Meloni è un decreto legge in materia penale ispirato dichiaratamente ad una logica securitaria. La decisione sfida in più punti la Costituzione. Fin dalla motivazione politica che lo sorregge.
- Ricorrere alla sanzione penale impone di regola una decisione che si formi nel confronto pubblico e largo del parlamento, affinché la maggioranza si misuri con le minoranze.
- La norma rischia di infrangere il diritto costituzionale di riunione (articolo 17), ampiamente garantito a tutti i cittadini, con l’eccezione dei raduni non pacifici e armati.
Il primo atto del governo Meloni è un decreto legge in materia penale ispirato dichiaratamente ad una logica securitaria. La prova è il nuovo reato per vietare e punire i rave party. La decisione sfida in più punti la Costituzione. Fin dalla motivazione politica che lo sorregge. Secondo le parole del prefetto-ministro dell’interno Matteo Piantedosi, il governo s’è limitato a eseguire la volontà della maggioranza degli elettori. Una simile spiegazione stride con il costituzionalismo e con il suo diritto. La ragion d’essere di un ordine costituzionale è, allo stesso tempo, di fondare e di limitare il governo.
La democrazia implica una decisione della maggioranza, ma la maggioranza non è onnipotente, ma è soggetta alla Costituzione e ai suoi princìpi, proprio perché dispone del potere di governare. Non c’è potere senza limite. Non basta neppure l’investitura popolare, perché è la Costituzione che legittima un governo e non viceversa (articolo 1.2 Costituzione).
Un problema ulteriore è il mancato rispetto della riserva di legge in materia penale (articolo 25.2 della Costituzione). La prassi di stabilire nuovi reati mediante un decreto legge del governo, e non una legge delle camere, non giustifica la deroga di un principio posto a presidio della garanzia della libertà personale.
Ricorrere alla sanzione penale impone di regola una decisione che si formi nel confronto pubblico e largo del parlamento, affinché la maggioranza si misuri con le minoranze, perché la scelta sia la più ragionevole possibile, in relazione ai motivi di allarme sociale che dovrebbero giustificarla in astratto, e condizionarla nella sua disciplina.
Un decreto legge, deliberato dal Consiglio dei ministri, rinvia la dialettica parlamentare al momento della conversione, solo dopo che le nuove norme penali sono già diventate efficaci e applicate, e quindi a cose fatte.
La scelta del decreto legge, al netto della sussistenza dei presupposti straordinari di necessità ed urgenza che dovrebbero assisterlo per essere legittimo, rende incerto e precario ciò che la Costituzione, stabilendo la riserva assoluta di legge, vuole certo e stabile.
I problemi
Proprio perché dura sessanta giorni e potendo essere modificato in sede di conversione, il ricorso al decreto non assicura la certezza del diritto, che in materia penale è un valore assoluto.
La terza ragione costituzionale appannata riguarda il fine e la scrittura del nuovo reato. Quando si punisce un comportamento la Costituzione esige che ci sia un bene fondamentale da tutelare, e che ciò si faccia mediante una regola precisa e determinata che non lasci spazio a interpretazioni ambigue e vaghe.
La norma anti rave è così astrusa che non solo non si capisce quale sia il fine perseguito (se non un generico bisogno di ordine e legalità), ma potrebbe punire qualsiasi riunione, anche un flashmob o un’occupazione di un’aula universitaria o di una scuola.
Il testo sanziona «l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica», punendo gli organizzatori o i promotori con una pena da tre a sei anni e una multa da mille a diecimila euro, estesa, ma diminuita, anche a chi partecipa.
Un oltraggio al diritto
Ogni parola usata è un oltraggio al comune senso del diritto, che esige il ricorso alla sanzione penale solo nei casi estremi e solo mediante norme precise, per rendere effettivo il principio di colpevolezza, ossia l’imputabilità-comprensibilità di una condotta illecita ad una persona.
La norma rischia altresì di infrangere il diritto costituzionale di riunione (articolo 17), ampiamente garantito a tutti i cittadini, con l’eccezione dei raduni non pacifici e armati. Decisivo è il fatto che per le riunioni in luoghi pubblici si pone sui soli organizzatori un onere (non un obbligo) di preavviso alle autorità, che possono perciò vietarle, ma solo per «comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica».
Il nuovo reato, nella sua consapevole vaghezza, potrebbe aggirare le garanzie costituzionali, nel punire qualsiasi situazione di pericolo ipotetico, liberamente apprezzabile dalle forze di polizia, senza la prova in concreto della lesione della pacifica convivenza o della sicurezza fisica delle persone, l’unico bene che conta, ma che, invece, il decreto ha dilatato anche alle nebulose idee di ordine pubblico e di sanità pubblica. Nel nome di ordine e legalità, il mantra di chi oggi ha vinto le elezioni, la libertà viene così rovesciata nel suo contrario.
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