- Il Dpcm del 23 settembre scorso dispone che dal 15 ottobre la modalità ordinaria di lavoro nelle pubbliche amministrazioni sia quella in presenza. Il comunicato del ministro per la Pubblica Amministrazione afferma che il lavoro a distanza richiede accordi individuali, che però sono esclusi da un decreto-legge di aprile.
- La P.A. sembra fare un passo indietro: il lavoro agile era posto, dalla legge del 2017 che lo ha introdotto, sullo stesso piano del lavoro in presenza. Il nuovo Dpcm invece lo declassa a modalità non ordinaria. Ciò inciderà sull’obiettivo di conciliazione vita-lavoro correlato a tale modalità lavorativa.
- Il ministro, appena insediatosi al Governo, avrebbe potuto chiedere alle amministrazioni un monitoraggio sul lavoro a distanza, procurandosi così dati idonei a consentire un’analisi di costi e benefici, settore per settore, attività per attività.
Qualche settimana fa, il ministro per la Pubblica Amministrazione (P.A.), Renato Brunetta, aveva definito come «lavoro a domicilio all'italiana» quello svolto dall’inizio della pandemia, preannunciandone la conclusione. E così, il 23 settembre scorso, il presidente del Consiglio, Mario Draghi, su proposta dello stesso ministro, ha firmato un decreto (Dpcm) per riportare in presenza i dipendenti pubblici. Il Dpcm è laconico: «A decorrere dal 15 ottobre 2021 la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle amministrazioni (…) è quella svolta in presenza».
Più esaustivo è, invece, il comunicato del ministro della P.A., che – tra le altre cose - preannuncia l’emanazione di linee guida per «dare piena attuazione al rientro in presenza». In attesa delle linee guida, serve rilevare alcuni problemi già emersi.
Il lavoro a distanza
Il “lavoro agile” è stato regolamentato nel 2017 (l. n. 81), prevedendone l’applicazione anche ai «rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche». La legge lo definisce come «modalità di esecuzione (…) stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa».
Da febbraio 2020, dopo l’inizio della pandemia da Sars-CoV-2, in molti ambiti il “lavoro da casa” ha consentito la prosecuzione di attività e servizi e, al contempo, il contenimento dei contagi.
Una serie di provvedimenti – decreti, direttive e circolari - hanno semplificato l’accesso a tale tipo di lavoro. Il principale è il decreto Cura Italia (d.l. n. 18/2020), che ha previsto il lavoro agile come «modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni» fino alla cessazione dello stato di emergenza «ovvero fino ad una data antecedente stabilita con decreto del presidente del Consiglio dei Ministri», e in forma semplificata, cioè a prescindere «dagli accordi individuali e dagli obblighi informativi» previsti dalla legge del 2017. Nell’agosto 2020, il lavoro a distanza è tornato a costituire «una delle modalità ordinarie» (d.l. 104/2020), in linea con la legge del 2017, che lo pone sullo stesso piano di altri modelli lavorativi.
Nell’aprile 2021 (d.l. n. 56), il ricorso alla procedura semplificata è stato esteso fino alla disciplina nei contratti collettivi del pubblico impiego, e comunque non oltre il 31 dicembre 2021. Poi è arrivato l’ultimo Dpcm.
Incongruenze e passi indietro
Il nuovo Dpcm trova base giuridica nel decreto del marzo 2020 - che, come detto, prevede il lavoro agile in forma semplificata, cioè senza accordo individuale e obblighi informativi - mentre pare dimenticare il decreto-legge di aprile 2021, che protrae tale forma semplificata fino alla regolazione del lavoro a distanza da parte dei contratti collettivi.
Quest’ultimo decreto-legge non è citato tra i provvedimenti che costituiscono il presupposto del Dpcm stesso, ed è come se non esistesse per il comunicato del ministro per la P.A.. Infatti, il comunicato afferma che, fino alla «disciplina del lavoro agile da parte del Contratto collettivo nazionale», lo smart working è subordinato alla «stipula dell’accordo individuale». Insomma, il comunicato del ministro Brunetta “deroga” al decreto-legge.
Detto ciò, con il nuovo Dpcm la P.A. sembra fare un passo indietro: il provvedimento, qualificando il lavoro in presenza come «modalità ordinaria», pare declassare il lavoro non in presenza a modalità “straordinaria”, quindi “eccezionale”, e ciò inciderà sull’obiettivo di «incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro», espressamente legato allo smart working dalla legge del 2017.
Il comunicato sopra citato conferma la poco edificante opinione che il ministro della P.A. ha per il lavoro a distanza. Brunetta sembra dare per scontato che in qualunque settore pubblico esso determini inefficienze - il ritorno in presenza serve a «incrementare l’efficienza», dice nel comunicato - e pertanto debba essere considerato una modalità non ordinaria di lavoro, contrariamente alla legge che l’ha istituito.
Può ipotizzarsi che questo giudizio negativo da parte del ministro che sovraintende le pubbliche amministrazioni influenzerà queste ultime nella redazione del “piano integrato” (d.l. n. 80/2021), destinato ad assorbire i “piani organizzativi del lavoro agile”.
Nessuna valutazione degli impatti dello smart working
È vero che il lavoro agile non è il «lavoro a domicilio all'italiana» e che deve rispettare la direttiva del Dipartimento della Funzione Pubblica (n. 3/2017) - attuativa della legge che l’ha introdotto - cui si aggiungeranno le prossime linee guida.
Ma prima di arrivare alla conclusione che lo smart working sia una modalità di lavoro “eccezionale” rispetto a quella in presenza, e tradurre tale conclusione in un Dpcm, sarebbe stato necessario disporre di dati utili a consentire un’analisi di costi e di benefici settore per settore, attività per attività.
Subito dopo essersi insediato al governo, il ministro della P.A. avrebbe potuto chiedere alle amministrazioni un monitoraggio sul lavoro a distanza svolto dall’inizio della pandemia. Ciò è stato fatto nei mesi scorsi, ad esempio, dalla Banca d’Italia, che ha valutato ogni aspetto connesso allo smart working.
Tra quelli positivi, il work-life balance, quindi gli impatti su benessere e qualità della vita dei dipendenti, e di riflesso sulla loro produttività; la riduzione, oltre che dei costi, dei tempi legati agli spostamenti, e conseguentemente la maggiore capacità di «fronteggiare meglio i picchi di lavoro e rispettare le scadenze»; l’abbattimento delle emissioni di CO2, derivante dal minor uso di mezzi di trasporto; la «maggiore inclusione, in particolare per le persone con disabilità».
Tra gli aspetti negativi, la riduzione di efficacia di attività poco “lavorabili” da remoto; la diminuzione degli scambi informativi; l’aumento dei «rischi di marginalizzazione delle persone, della capacità di integrazione dei nuovi assunti, con possibili riflessi di medio-lungo termine sulla coesione dei team».
Insomma, senza dati idonei a consentire che il giudizio sullo smart working sia motivato, e per quali ambiti, si traggono conclusioni poco fondate. Discorsi da bar, li definirebbe qualcuno. Del resto, lo smart working limita la crescita del PIL anche perché riduce i consumi al bar, è stato affermato. Tutto si tiene, si potrebbe dire con una battuta. È davvero una battuta?
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