- Il contenuto delle proposte sul presidenzialismo e lo stringato dibattito che si è svolto prima del voto sono stati una rappresentazione istruttiva, ancorché poco edificante, del livello a cui è giunto, dopo decenni, il confronto parlamentare sulla revisione dei “piani alti” dell’ordinamento repubblicano.
- Come è noto, il “sistema francese”, preso sul serio e per intero, con un “presidente che governa”, presuppone una distorsione del rapporto voti/seggi parlamentari (quindi un “premio” per il partito o la coalizione di maggioranza relativa) di gran lunga superiore a quella potenzialmente prodotta dal Rosatellum.
- Produce poi una concentrazione di poteri nelle mani del presidente (a scapito di partiti e parlamentari) di gran lunga superiore a quella previsto, in capo al premier, dalla riforma Renzi-Boschi affossata dal referendum del 2016.
Il dibattito svolto alla Camera martedì di questa settimana poteva concludersi in modo lievemente diverso anche se l’esito finale non sarebbe cambiato. Erano all’ordine del giorno due progetti di legge di revisione costituzionale. Il progetto di Fratelli d’Italia, a prima firma Giorgia Meloni, riguardava l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Quello proposto da deputati di LeU, Pd, M5S e Iv, modificava l’articolo 57 per evitare che (come voluto dai costituenti) i seggi senatoriali siano assegnati regione per regione.
In questo modo, anche i seggi assegnati a regioni come l’Abruzzo o il Molise potrebbero rifluire in circoscrizioni più grandi o in collegio unico nazionale per essere assegnati con un sistema perfettamente proporzionale. Il primo progetto è stato respinto e ha concluso seduta stante il suo iter. Il secondo è stato approvato ma è molto improbabile che completi il percorso. Entrambi i risultati sono stati infatti influenzati dalle assenze non casuali di deputati leghisti e di Forza Italia.
Come i francesi
Il contenuto delle proposte e lo stringato dibattito che si è svolto prima del voto sono stati comunque una rappresentazione istruttiva, ancorché poco edificante, del livello a cui è giunto, dopo decenni, il confronto parlamentare sulla revisione dei “piani alti” dell’ordinamento repubblicano.
Da un lato, Fratelli d’Italia ha rilanciato l’idea di una imprecisata Grande riforma presidenzialista, sul modello francese, anticipando un argomento che promette di spendere nella prossima campagna elettorale. La proposta di legge Meloni prevede l’elezione diretta del presidente in due turni come in Francia.
Secondo il progetto, il presidente, così eletto, «dirige la politica generale del governo e ne è responsabile», ma non è chiaro come questo possa avvenire, dato che tutto il resto, sistema elettorale, investitura parlamentare del premier e bicameralismo, rimarrebbero inalterati.
A scapito del parlamento
Come è noto, il “sistema francese”, preso sul serio e per intero, con un “presidente che governa”, presuppone una distorsione del rapporto voti/seggi parlamentari (quindi un “premio” per il partito o la coalizione di maggioranza relativa) di gran lunga superiore a quella potenzialmente prodotta dal Rosatellum.
Produce poi una concentrazione di poteri nelle mani del presidente (a scapito di partiti e parlamentari) di gran lunga superiore a quella previsto, in capo al premier, dalla riforma Renzi-Boschi affossata dal referendum del 2016. Di sicuro non curerebbe (semmai acuirebbe) la percezione di irrilevanza di cui soffrono attualmente i parlamentari, al contrario di quanto Meloni ha sottolineato con insistenza.
D’altro canto, va detto, la “Grande riforma” elaborata da Giuliano Amato per il Psi, al netto di tutti i possibili infiocchettamenti retorici, aveva esattamente gli stessi limiti: prevedeva l’elezione diretta del presidente della Repubblica, nel presupposto infondato che essa avrebbe bipolarizzato la competizione e rafforzato i governi, pur in presenza di un sistema elettorale che ai socialisti conveniva rimanesse proporzionale. Anche in quel caso si trattava di una proposta di bandiera. Ma eravamo nel 1980. Ritornare allo stesso punto nel 2022 non è un grande segno di vitalità programmatica.
Separati in casa
Il “nuovo Ulivo” ha dimostrato di essere oggi guidato, in materia istituzionale, da un unico interesse: quello di appendersi ad ogni residua possibilità che in coda alla legislatura, grazie a un fortuito allineamento dei pianeti, passi una revisione in senso puramente proporzionale del sistema elettorale che eviti l’imbarazzo di dovere presentare candidati comuni nei collegi uninominali e riduca i danni di una probabile sconfitta.
Con un paradosso. I partiti del nuovo Ulivo tifano attivamente per il proporzionale, perché temono di dovere affrontare la prova elettorale uniti, ma i loro leader si parlano con frequenza e sono in grado di coordinarsi nei loro modesti propositi su questa materia. Gli altri giurano che la legge elettorale e, quindi, l’alleanza di centrodestra non sono in discussione, ma nel frattempo non si parlano, si guardano con circospezione senza trovare un accordo sulle candidature alle amministrative, si fanno dispetti.
Il Matteo Salvini respinto alla conferenza FdI di Milano, nel grande giorno della discussione in aula, affida l’intervento della Lega sul progetto Meloni a Ketty Fogliani (esperta di artigianato, commercio, agricoltura, che è in commissione Affari costituzionali solo dal luglio 2020), lo affossa con oltre venti assenti e nello stesso tempo tiene in vita il progetto che andrebbe in una direzione completamente opposta.
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