Le parole di Francesco sul conflitto a Gaza si collocano nel solco di una relazione contraddittoria col mondo ebraico scandita da vicinanza e incomprensione. Sono anche il segno di una chiesa che fatica ad emanciparsi da antichi stereotipi antigiudaici
Stupiscono fino ad un certo punto le parole di papa Francesco sul conflitto mediorientale. Anzitutto perché, almeno come sono riportate dalle anticipazioni di queste ore, sono assai meno enfatiche di come riportano i titoli di una stampa ormai in costante modalità imitatio social per puro spirito di sopravvivenza.
Piuttosto, la richiesta di un’indagine per verificare se sia in corso un genocidio a Gaza risponde ad ovvi criteri umanitari inevitabilmente cari ad una prospettiva cristiana, che nulla vogliono aver a che fare con analisi del conflitto, o attribuzioni di responsabilità morali, che è ben chiaro siano distribuite dall’una e dall’altra parte in tutti i conflitti. Parole che richiamano la famosa decisione di far portare il crocifisso ad una donna ucraina e russa insieme durante la prima via crucis dopo l’invasione decisa da Vladimir Putin. Anche in quel caso non mancarono le polemiche.
Secondo, perché, complice la sua provenienza «dalla fine del mondo», Francesco non si è mai dimostrato molto sensibile nei confronti dell’elaborazione ecclesiastica post-Shoah, anche adottando un linguaggio da tempo bandito dal clero occidentale.
Le criticità nei rapporti
Almeno due gli episodi che vengono immediatamente in mente: l’utilizzo del termine farisei per richiamare l’antico legalismo ebraico, anche in occasioni importanti come un’omelia a Santa Marta dell’ottobre 2017, e la rappresentazione del Dio della Torah come crudele e vendicativo.
Stereotipi sfruttati dalla propaganda antigiudaica di tutti i tempi, che lo misero in rotta di collisione col suo predecessore Joseph Ratzinger, col quale non mancarono motivi di aspra polemica da parte del rabbinato, ma a cui è stato riconosciuto il grande merito di aver circoscritto l’ostilità verso Gesù al sinedrio del suo tempo, togliendo quello stigma terribile del deicidio che la teologia cristiana aveva esteso al popolo ebraico tutto, fino a far divenire la crudeltà uno dei suoi tratti essenziali.
Rappresentazioni che colpirono molti sacerdoti e monsignori coinvolti da decenni nel dialogo ebraico-cristiano, che, però, qui non cito per non mettere in difficoltà nessuno, soprattutto in una struttura teocratica e verticistica come la chiesa cattolica, in cui vige ancora il principio dell’infallibilità del papa.
È vero che, di fianco a questi episodi, Bergoglio ha fin da subito dimostrato vicinanza al mondo ebraico. Impossibile non ricordare in questi tragici mesi la preghiera comune «invocazione per la pace» con Abu Mazen e il quantomai compianto Shimon Perez nel giugno del 2014. Così come gli auguri per la festività di Pesach rivolti alla comunità ebraica durante uno dei suoi primi angelus. Si tratta, però, di un approccio dialogico in nome di un astratto ideale di fratellanza universale, che, per le spinte assimilazioniste che si porta dietro, non manca di criticità.
Terzomondismo e Concilio
Piuttosto, credo sia utile trarre alcune conclusioni. Primo: anche se accolto come una sorta di anti-papa dal mondo conservatore, Bergoglio conserva dei tratti molto conservatori, vedi alla voce «frociaggine».
Secondo: in lui gioca un ruolo importante un’impostazione terzomondista, che ha sempre assunto la causa palestinese come bandiera da sventolare in ottica anti-occidentale (come se Israele non fosse piuttosto il riflesso di un’identità che l’occidente ha voluto cancellare a più riprese). Molti i motivi di incomprensione col mondo ebraico in questo anno e più di guerra.
Terzo: anche dopo il Concilio, la chiesa cattolica fatica ad elaborare un approccio all’ebraismo che superi i tradizionali stereotipi che Benedetto XVI, e prima di lui Karol Wojtyla, avevano tentato di circoscrivere al piano storico. Inutile sottolineare quanto incidano ai giorni nostri, dove parole pre-conciliari scandiscono le analisi quantomai unilaterali del conflitto.
Ultima considerazione, l’uso acritico di vocaboli che, volenti o nolenti, hanno assunto un significato politico rischia di favorire la percezione di quell’intersezione fra antigiudaismo islamico e occidentale che molto spaventa l’ebraismo europeo e che un’autorità intellettuale come Rav Laras denunciava dalla pagine del Corriere della Sera nei suoi ultimi anni di vita.
© Riproduzione riservata