Come evidenziato già alla fine degli anni ‘70 da Gilles Kepel, il ritorno del religioso è un tratto fondante del nostro tempo. Con ciò sono tornate le visioni messianiche, che oggi incidono sulle politiche di tutte le parti, non di una sola
Davvero troppo semplicistica e viziata da un eurocentrismo che vede nell’identità religiosa un residuo oscurantista da cui liberarsi la riduzione delle agitazioni interne alla società israeliana a un conflitto fra laici e religiosi. Visione assimilazionista tipica dello stato-nazione europeo, che ci sta mettendo in rotta di collisione con mezzo mondo, il quale risponde spesso con rivendicazioni identitarie che si rifanno a edulcorate identità pre-coloniali.
Schema quanto mai inapplicabile in Medio Oriente, dove l’identità religiosa è un imprescindibile elemento di definizione dei popoli, chiederne un superamento, o una sua riduzione alla sfera privata, è vissuto come un’inaccettabile forma di violenza di una parte sull’altra.
Certo ci sono stati movimenti nazionalisti e socialisti arabi, ma sono sempre dovuti scendere a patti con la componente religiosa, spesso poggiando su un apparato repressivo che ha preparato soltanto nuovi scontri. Chiaro che ogni forma identitaria ha delle potenzialità patologiche ed un legittimo sentimento di appartenenza religiosa può tramutarsi in una chiusura inconciliabile col proprio vicino.
È effettivamente ciò che il Medio Oriente, e non solo, vive da almeno tre decenni, contrassegnati da ciò che Gilles Kepel ha a suo tempo definito come il «ritorno del religioso», aprendo un filone di studi che si è gradualmente arricchito, divenendo centrale dall'11 settembre in avanti.
Il conflitto israelo-palestinese è stato investito in pieno da questo processo storico, vedendo crescere l’influenza di movimenti tradizionalisti che adottano categorie messianico-redentive, interpretando ogni evento storico come una prova da superare. Una sorta di segno divino, che non modifica di una virgola la prospettiva generale.
In ambito ebraico, alcuni movimenti che vanno dal sionismo religioso di Rav Kook fino ai hassidim di Satmar, radicalmente antisionisti, hanno applicato questo schema persino alla Shoà. Lettura dei segni che troviamo in tutta la famiglia monoteista: ebraica, musulmana e cristiana.
Hamas, la cui visione nasce con lo sceicco Yassin per poi essere definitivamente sistematizzata dall’esponente della Fratellanza musulmana Yusuf Al Qaradawi, Houthi, Hezbollah e il clero sciita nato dalla rivoluzione khomeinista ne sono la versione musulmana.
Almeno quanto il protosionismo del cristianesimo riformato, poi confluito nella visione messianica degli attuali movimenti evangelisti che sostengono attivamente l’espansione degli insediamenti israeliani ne rappresentano la declinazione cristiana.
Attribuire quanto accade al messianismo solo di una parte è davvero una rimozione semplificante, che rischia di sfociare nella faziosità.
Tra l’altro, l’elezione di Sinwar a capo politico di Hamas, iscritta in un’inevitabile logica di guerra certamente anche alimentata da Israele, non fa che ribadire il principio per cui a brigante, brigante e mezzo, visto che l’ex detenuto nelle carceri israeliane rappresenta più di ogni altro nel suo gruppo questa visione messianica.
Dunque, nessuna speranza di pace in un orizzonte religioso? Anche qui, siamo alla semplificazione spinta. Anzitutto, storicamente le religioni sono state macchine di conquista e odio dell’altro almeno quanto, in virtù di quella stessa visione universalistica, hanno alimentato il richiamo ai principi di fraternità e uguaglianza.
Tre esempi recenti: l’ultimo Papa Wojtyla che si appellava alla pace opponendosi alla enduring freedom bushana, la scelta del successore Ratzinger del nome Benedetto legandosi al Papa della «inutile strage», l’influenza esercitata dalla visione cristiana di Desmond Tutu sulla Commissione sudafricana Verità e riconciliazione.
Va, poi, aggiunta la dialettica interna ai quadri teologici, tutt’altro che monoliti compatti. In Israele, è cronaca storica, fu decisivo per acquietare la componente religiosa dello Stato il parere del Rabbino capo sefardita Ovadia Yosef, che promosse gli Accordi con l’Egitto e la restituzione della pianure del Sinai, in virtù del concetto biblico di pikuach nefesh (salvezza della vita), confidando nella natura non idolatrica dell’Islam riconosciuta dal rabbinato.
Lo stesso rabbino che denunciò come contrarie all’ebraismo le incursioni sulla Spianata delle Moschee/Monte del Tempio.
Anche nella semiotica religiosa c’è, dunque, spazio per la trattativa, se la si vuole naturalmente. Le idee camminano sempre sulle gambe degli uomini. Se si vuole capire cosa impedisca la trattativa in Israele, si guardi piuttosto a quei quattro-cinque membri laicissimi del Likud, che non tolgono l’appoggio a Netanyahu, nonostante siano in rotta di collisione con lui dai tempi della riforma della giustizia.
Rispondendo a questa domanda, si comincerà a capirci qualcosa. Anzitutto, però, non banalizziamo il dibattito scaricando su una sola parte le responsabilità di quanto avviene, magari avallando le proprie idee con definizioni e luoghi comuni come «popolo eletto» o «la terra donata da Dio» tratti dal sentito dire o dalla becera retorica fondamentalista.
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