- Per la campagna che la porterà a sfidare Macron nel ballottaggio per l’Eliseo, Marine Le Pen ha scelto lo slogan “femme d’État”, donna di stato, sfruttando apertamente la sua immagine femminile.
- La figura di paladina dei diritti delle donne pare funzionale soprattutto al processo di “dédiabolisation” del suo partito, e a chiudere il gap di genere nel suo elettorato, mentre rafforza nella candidata il profilo dell’outsider.
- Ma il fattore populista spinge Le Pen a utilizzare l’agenda dei diritti delle donne principalmente come arma della storica battaglia anti-islamista e contro l’immigrazione, in un’espressione esemplare di «femonazionalismo».
Alle elezioni presidenziali di cinque anni si presentò come «una madre, una sorella, una donna in politica in un mondo di uomini». Per la campagna del 2022, che domenica la porterà a sfidare Macron nel ballottaggio per l’Eliseo, ha scelto lo slogan «femme d’État», donna di stato. Marine Le Pen non lascia dubbi sull’intenzione di sfruttare sempre più apertamente la sua immagine femminile per conquistare gli elettori e soprattutto le elettrici francesi, storicamente più restie a votare per l'estrema destra.
Nella prima partita presidenziale del tempo del #MeToo, in un clima di rinnovato attivismo femminista internazionale, il voto del 24 aprile rappresenta non solo una sfida tra sovranismo ed europeismo, patriottismo economico e globalizzazione, ma anche un test per la capacità dei candidati di convincere le donne.
Emmanuel Macron, che nel 2017 aveva dichiarato quella della parità di genere la «grande causa del quinquennio», ha lasciato molte aspettative insoddisfatte, ma rilancia il tema come priorità in caso di nuovo mandato. A sua volta la leader di Rassemblement National, lo scorso 8 marzo su Le Figaro, ha indirizzato un messaggio alle donne francesi dichiarando la volontà di «portare queste preoccupazioni al vertice dello stato».
Un simile proposito si scontra però con la scarsità di attenzione al tema nel suo programma (che menziona le donne solo nei capitoli “famiglia” e “sicurezza”), nonché con l’incoerenza dell’operato del suo partito che, sia all’assemblea nazionale sia al parlamento europeo, si è opposto a provvedimenti contro la violenza, le molestie e i diritti sessuali e riproduttivi.
L’immagine di Le Pen paladina dei diritti delle donne pare funzionale soprattutto al processo di “dédiabolisation” del suo partito, e a chiudere il gap di genere nel suo elettorato. Mentre la figura della donna che combatte per emergere in un mondo di uomini rafforza nella candidata il profilo dell’outsider, un elemento chiave della leadership populista.
Proprio il fattore populista è però quello che spinge Le Pen a utilizzare l’agenda dei diritti delle donne principalmente come arma della storica battaglia anti-islamista e contro l’immigrazione. È ciò che ha fatto anche nell’ultimo faccia a faccia televisivo con Macron, quando alla domanda su come ridurre la violenza ha risposto con la proposta di un referendum sull’«immigrazione selvaggia e anarchica», mentre ha dichiarato di voler vietare il velo come «misura per la libertà delle donne».
Si tratta di un’espressione esemplare di quello che la sociologa Sara Farris chiama «femonazionalismo»: la strumentalizzazione del tema dei diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere da parte della destra nativista e xenofoba. Un femminismo di facciata, dunque, che può funzionare forse a fini di consenso, ma certo non serve la causa mondiale dell’uguaglianza tra i generi.
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