- In Africa il lockdown non funziona: lavorare a distanza non è facile, la connessione non è disponibile in molte aree, e con la chiusura dei mercati le persone rischiano la fame.
- Per quanto riguarda i dati su contagi e cure c’è molta incertezza, si sospettano le autorità di coprirli, grazie a un sistema sanitario pubblico fragile o privatizzato. Il problema però è soprattutto economico.
- Se l’Europa non interviene subito, il coronavirus potrà divenire in Africa il più spettacolare “push factor”, l’incentivo a partire, delle future migrazioni.
“Va popolo mio, entra nelle tue stanze e chiudi la porta dietro di te. Nasconditi per un momento, finché non sia passato lo sdegno”. Il pastore Mohammed Sanogo della Chiesa del Vaso d’Onore usa il profeta Isaia per spiegare l’isolamento a cui sono sottoposti ad Adjamé, quartiere periferico di Abidjan, capitale della Costa d’Avorio.
Malgrado l’ascendenza musulmana del predicatore, la setta del Vaso è cristiana evangelicale. I suoi leader hanno scelto di appoggiare le regole del “confinement” e le spiegano ai fedeli come collera di Dio con un popolo infedele.
Meglio starsene a casa finché non sia passato l’angelo della morte. Altre sette imprecano contro “la malattia dei bianchi” che non li riguarda.
Accadde la stessa cosa all’inizio di ebola: molti i soccorritori cacciati e accusati di essere untori. I jihadisti del Sahel affermano che si tratti di punizione divina contro i “crociati”. L’Africa religiosa è in subbuglio e insegue riparo in qualche forma di devozione.
All’inizio le misure che i governi hanno preso copiavano le nostre: divieti di viaggio, blocco dei voli, chiusura delle frontiere, isolamento per gradi, coprifuoco e lockdown totale. In Africa lavorare a distanza non è facile: solo in Rwanda quasi tutto cablato, è possibile lo smart working. Altri stati hanno tale capacità solo in alcune città come a Nairobi o in Sudafrica. Ma nulla del genere si può dire per le enormi estensioni rurali o per le bidonville periferiche dove scarseggiano anche acqua ed elettricità.
Non è impossibile chiudere temporaneamente una città africana (accade sempre durante crisi e guerre) ma è insolita la totale sospensione dei mercati. Senza mercati non resta che la fame o la rivolta del pane. I governi hanno difatti ridotto i lockdown a coprifuoco per evitare almeno gli assembramenti serali ma difficile rimane il “social distancing” nei quartieri e negli slums. Basta tutto questo a contenere il contagio?
C’è molta incertezza sui dati: si sospettano le autorità di coprirli, grazie a un sistema sanitario pubblico fragile o privatizzato. In Africa in media vi sono 3 medici ogni 10.000 abitanti contro i 33 in Europa. Molti medici stranieri sono rientrati in patria a marzo e non ancora tornati. Alle carenze la gente supplisce con il ritorno della tradizione: nei quartieri poveri è un tripudio di sette “medicali” e culti di guarigione assieme all’aumento dei “curandeiros” tribali che curano con erbe, infusi e rimedi del passato. Anche alcuni vescovi dicono di avere la cura: i “rimedi” a base di artemisia, aloe o altre erbe stanno dilagando. Al meglio si tratta di complessi vitaminici.
La timidezza europea
Carichi di mascherine, camici, respiratori i cinesi sono giunti sul continente da Pechino che non ha perso tempo per mostrare la sua solidarietà. È stato un modo per cercare di recuperare simpatia tra popolazioni africane non molto ben disposte.
L’Europa è arrivata più tardi non tanto per mancanza di fondi (già stanziati a fine 2019) ma a causa del suo stesso lockdown. La cooperazione non è popolare oggi in Occidente: le classi dirigenti hanno paura di farsi criticare da populisti e destre estreme. Di conseguenza numerosi progetti di cooperazione con l’Africa sono rimasti in stasi.
Passata la prima ondata si è notata una certa resilienza africana al virus. Il temuto disastro non si è verificato, i dati sono confortanti anche se non totalmente affidabili. Il 70 per cento della popolazione africana è sotto i 30 anni e c’è chi vede in questo il vantaggio di una maggior resilienza.
Altri esperti fanno notare che tra malaria, ebola e Hiv, una buona parte della popolazione ha sviluppato una notevole difesa immunitaria. Secondo l’Unaids, un’agenzia Onu, circa il 20 per cento della popolazione africana tra i 15 e i 50 anni sarebbe sieropositiva: non si sa se ciò sia un vantaggio oppure esponga di più alla nuova infezione.
La sfida più grave rimane quella economica: nel 2020 il Pil africano arretrerà. Non era successo neppure durante la crisi del 2008. Circa il 90 per cento dei lavoratori africani vive nel settore informale.
Cosa fare quando l’economia si ferma o rallenta, mentre non giungono più le rimesse degli emigrati che valgono quattro volte gli aiuti?
C’è un problema di risorse umane: l’Aids ha già decimato alcuni strati essenziali della popolazione (infermieri, insegnanti, poliziotti ecc.), indebolendo la tenuta generale.
Se non aiutiamo subito, il coronavirus potrà divenire in Africa il più spettacolare “push factor”, l’incentivo a partire, delle future migrazioni.
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