- Giorgia Meloni sta diventando Luigi Di Maio senza neppure attraversare la fase dei proclami dal balcone o delle richieste di impeachment per il presidente della Repubblica.
- L’arrivo oggi al più stanco dei rituali estivi dell’establishment italiano, il meeting di Cernobbio sul lago di Como, sancisce il tentativo della leader di Fratelli d’Italia di conquistare il potere per cooptazione, invece che con una scalata ostile.
- Meloni vuole far credere che sarà più “draghiana” di Draghi. Resta da vedere fino a quando durerà questo bluff e se reggerà almeno fino al 25 settembre.
Giorgia Meloni sta diventando Luigi Di Maio senza neppure attraversare la fase dei proclami dal balcone o delle richieste di impeachment per il presidente della Repubblica.
L’arrivo oggi al più stanco dei rituali estivi dell’establishment italiano, il meeting di Cernobbio sul lago di Como, sancisce il tentativo della leader di Fratelli d’Italia di conquistare il potere per cooptazione, invece che con una scalata ostile.
L’approccio non può che piacere a un sistema economico che preferisce la trasmissione dinastica della gestione aziendale e i patti di sindacato alle competizioni aperte per il controllo delle aziende.
«Credo di essere pronta a governare questa nazione. La domanda è se gli italiani sono pronti a sperimentare un nuovo governo, che non rende conto a nessuno se non al popolo italiano», diceva l’altro giorno Giorgia Meloni a Cagliari.
La seconda metà dello slogan è una precisazione non richiesta che finisce per indicare il problema, invece che nasconderlo: da quando ha iniziato a fiutare la vittoria, Meloni ha iniziato a rispondere ai poteri di ogni genere, in attesa del 25 settembre quando dovrà rispondere anche al popolo italiano.
Le sanzioni alla Russia
Basta vedere il posizionamento sulle sanzioni alla Russia: negli anni dopo l’annessione della Crimea del 2014, Giorgia Meloni era contraria alle sanzioni «che massacrano il Made in Italy» e che l’Italia adotta sotto il «ricatto di Bruxelles».
Oggi assicura invece che le sanzioni sono «lo strumento più efficace che ci sia, però uno strumento ancora più efficace è liberarsi dalla dipendenza energetica russa: questa è una priorità per fermare la guerra in Ucraina».
Matteo Salvini ha fiutato lo spazio politico scoperto nella vasta area di destra anti-americana e filorussa e subito ha spostato la Lega sulle antiche e ormai impresentabili posizioni putiniane: «Ci stanno rimettendo gli italiani e ci stanno guadagnando i russi».
Con una certa coerenza, Salvini chiede anche nuovo deficit per 30 miliardi per ridurre il costo delle bollette, cioè per consentire agli italiani di consumare come in tempi normali e a Mosca di incassare gli attuali prezzi record del gas, il tutto a carico del contribuente italiano.
Lo scenario ideale per il Cremlino perché gli extra-profitti energetici compensano effettivamente l’effetto negativo delle sanzioni che hanno isolato il resto dell’economia russa.
Meloni, invece, si oppone allo scostamento di bilancio: da quando si vede già a palazzo Chigi, la leader di Fratelli d’Italia ha abbandonato ogni velleità contabile.
Sa di essere poco credibile in quanto capo di un partito di eterna minoranza e per di più di estrema destra, con una classe dirigente inadatta alla sfida (come dimostra il ricorso a reduci ultrasettantenni del berlusconismo) e dunque Meloni cerca di compensare con professioni di fedeltà a un progetto che in teoria avversava: il pragmatismo di governo di Mario Draghi.
Il lord protettore
Il premier, ha sintetizzato Rino Formica su Domani, è diventato una sorta di “lord protettore” di Meloni: mai un attacco diretto, le critiche soltanto alle proposte più implausibili del programma di centrodestra (che infatti sono difese soltanto dalla Lega). Draghi non scomunica, anzi, legittima, purché l’azione di governo resti seria e senza eccessi.
A gennaio Meloni non si era mai detta contraria alla candidatura di Draghi al Quirinale, mentre si opponeva a un bis di Sergio Mattarella e alla prosecuzione della legislatura. Due questioni che potrebbero tornare a incrociarsi nei prossimi anni.
Il Corriere della Sera, il quotidiano che più ha legittimato Giorgia Meloni come affidabile protagonista di governo, titola addirittura che la leader di Fratelli d’Italia ha “l’obiettivo di rassicurare” e “l’agenda Draghi non è più un tabù”.
Non è un caso che Meloni lasci circolare sempre come possibile componente della sua squadra di governo il nome di Fabio Panetta, attuale membro italiano del board della Bce, che potrebbe essere un ministro dell’Economia o, più probabilmente, un governatore della Banca d’Italia nel 2023 con la benedizione di Draghi. L’interessato non si prodiga in smentite.
Il bluff
Nel frattempo, gli esponenti del gruppo meloniano con un network internazionale, come l’ex economista del Fondo monetario Domenico Lombardi, si prodigano in incontri con gli investitori per spiegare che la destra di governo non sarà imprevedibile e scapestrata come la coalizione populista gialloverde del 2018, anzi.
Sarà più draghiana di Draghi. Resta da vedere fino a quando durerà questo bluff e se reggerà almeno fino al 25 settembre.
Perché ci sono almeno due problemi in questa narrazione: Giorgia Meloni non è Mario Draghi, non ha alcuna esperienza di governo se non la breve e non gloriosa parentesi da ministro della Gioventù, e gli elettori che hanno portato Fratelli d’Italia dal 4 al 24 per cento non si aspettano di votare il surrogato di un ex presidente della Bce.
Silvio Berlusconi osserva e spera nel miracolo, un risultato sopra il 9 per cento che potrebbe permettergli, se necessario, di rompere il centrodestra e mettersi al centro dell’ennesima operazione di larghe intese alternativa al governo Meloni.
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