Usciamo dalla polarizzazione e dall’aritmetica dei morti. Non si può mettere in concorrenza il valore della vita di due bambini. Non si bilancia un’atrocità con un’altra
Si può metter in competizione due bambini innocenti? Si può fare a gara tra l’atroce destino di Hind Rajab schiacciata dalle bombe a Gaza, e quello del piccolo Kfir Bibas rapito a nemmeno un anno? No, non si può. Eppure sui media e nel mondo politico si fa largo una gara macabra tra le vittime dell’una e dell’altra parte, che ha sfiorato anche il festival di Sanremo con le critiche al grido di Ghali.
Le parole usate diventano pietre lanciate contro l’altra parte quasi fossero armi, come il termine “genocidio” utilizzato ormai reciprocamente per ferire l’avversario o dipingerlo come un mostro. L’aritmetica dei morti avrebbe la pretesa di bilanciare un’atrocità con un’altra ma finisce solo per moltiplicare il dolore di tutti.
Questa è la vera mostruosità: una guerra infinita, di parole e sentimenti che sempre prepara quella combattuta davvero. Non è possibile stilare una classifica delle vittime, di chi sia più vittima, di chi è vittima superiore, eccellente o vittima perfetta. Nessun orrore può convertire, rimpicciolire o ridimensionarne un altro. Non è nemmeno possibile soppesare le vittime o confrontare il loro valore. I morti in guerra, soprattutto se civili, sono vittime e basta.
Il vero nemico è la guerra
Il pogrom eseguito il 7 ottobre da Hamas è dimostrazione di un odio sconfinato che si è fatto carnefice di persone indifese, donne, bambini. Addirittura si è trattato di israeliani pacifici (e per lo più pacifisti) che accoglievano per lavoro i palestinesi dentro le loro proprietà, qualcosa che i coloni estremisti di Cisgiordania non si sognerebbero neppure. La reazione dell’esercito israeliano a Gaza porta il segno atroce di una punizione collettiva. Come abbiamo sentito dire in questi mesi da numerosi responsabili di Israele: «Non ci sono palestinesi buoni ma solo palestinesi che non hanno la possibilità».
Davanti a tanto scempio viene quasi istintivo confrontare l’orrore del 7 ottobre con quello di Gaza distrutta, fare paragoni, soppesare e alla fine schierarsi. Ma è sbagliato: il vero nemico è la guerra, il vero mostro è il conflitto che non termina mai e trasforma gli uomini in furore bellico.
Hamas ha dimostrato di voler distruggere gli ebrei in quanto tali, una volontà stragista che non si è fermata nemmeno davanti alla morte perché vi ha aggiunto l’oltraggio dei cadaveri. Un pogrom che ha richiamato la Shoà e ha profondamente traumatizzato Israele intera, tutti i cittadini senza distinzione. La rappresaglia contro Hamas si è tuttavia trasformata in una vendetta contro tutto un popolo: un’inammissibile punizione collettiva per una popolazione accusata fondamentalmente di sostenere i terroristi, di nasconderli, di giustificarli, di proteggerli.
È caduta così la distinzione tra combattenti e civili, che la stessa Hamas aveva già cancellato. Lo scontro si è polarizzato al massimo, proprio come vogliono gli estremisti delle due parti: una lotta senza quartiere che non prevede accordi né compromessi ma solo guerra all’ultimo sangue. Tale ostilità ha tracimato oltre Gaza e Israele, contagiando altre società nel mondo intero. Da qui le prese di posizione di chi vive lontano, ovviamente semplificate, spesso vittima della propaganda e alla fine schierate in tifoserie contrapposte. La nostra coscienza morale e la nostra civiltà giuridica ripugnano tali schematizzazioni.
Classificare la sofferenza
Non è consigliabile lasciarsi trascinare in una pericolosa competizione sulla gerarchia delle sofferenze, soppesando le parole e graduandone il tasso. Il dolore è assoluto ogni volta che una vita viene tolta violentemente di mezzo e rimane irreparabile: nessuna altra violenza “riparatrice” potrebbe attenuarlo, spiegarlo o legittimarlo. Meglio avvicinare la sofferenza e i sofferenti senza creare categorie o scale di valori, immancabilmente carenti.
Stare vicino alla sofferenza non significa giudicarla o classificarla: significa restare accanto, immedesimarsi e condividere almeno un po’. Le polemiche sul “diverso” valore delle vittime, sulla loro quantità o sul loro bilanciamento, sono un modo per sfuggire una realtà manifesta: la guerra tra palestinesi e israeliani dura da troppo tempo, schiaccia i due popoli sotto il peso di un odio irrazionale, li acceca rendendo apparentemente impossibile ogni soluzione.
È questo l’obiettivo della guerra: far credere a chi si combatte di essere l’unica irriducibile soluzione. Non è così: nella storia popoli che si sono odiati per secoli e generazioni hanno imparato a vivere in pace. La possibilità che ciò accada anche in Israele è realistica. «Tutti i popoli sono buoni» predicava il saggio patriarca Atenagora da Istanbul. Lui aveva toccato con mano l’odio micidiale tra greci e turchi, passando attraverso il fuoco del conflitto, dei massacri e delle distruzioni. Alla fine della sua lunga vita parlava di una guerra da combattere contro sé stessi piuttosto che contro gli altri, allo scopo di disarmarsi.
È questa la strada da intraprendere tra israeliani e palestinesi. Perché ciò accada entrambi hanno bisogno di tutti i loro amici, non come tifosi ma come mediatori e facilitatori sulla via del dialogo. È difficile parlarsi dopo tanto orrore ma dobbiamo credere che i palestinesi non siano uguali ad Hamas e che non sia spento negli israeliani il desiderio di vivere insieme. Il sangue sparso rappresenta una lacerazione profonda ma la vita è sempre più forte della morte.
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