- Le primarie non c’entrano nulla o quasi con la democrazia interna ai partiti.
- Hanno piuttosto a che fare con una concezione strumentale e individualista della politica, in linea con una cultura politica dominante di questi ultimi trent’anni.
- Una cultura politica pervasa dal valore della realizzazione personale-individuale, dal farsi strada da solo o con il proprio manipolo di sodali, dal disdegno di ogni considerazione di fini o beni collettivi.
Le primarie, per quanto questo termine sia stato usato impropriamente per identificare processi decisionali assai diversi, sono state adottate la prima volt in occasione della “scelta” del leader della coalizione di centro-sinistra, “l’Unione”.
Nell’ottobre del 2005 i sostenitori della coalizione vennero chiamati ad esprimersi su una rosa di candidati tra i quali primeggiava, senza veri avversari, il candidato dell’Ulivo, Romano Prodi che infatti trionfò con il 74 per cento dei consensi su Fausto Bertinotti di Rifondazione comunista (15 per cento) e, a seguire, Clemente Mastella dell’Udeur e Antonio Di Pietro dell’Italia dei valori con percentuali molto basse. Quella mobilitazione popolare, che però non si riversò nel voto alle politiche della primavera successiva, era nata sostanzialmente per legittimare un leader senza partito come Romano Prodi. Ma il carattere festivo, gioioso di quella inedita esperienza, l’ha elevata a fattore fondativo del nuovo centro-sinistra. Tant’ è che il Pd la accolse come modalità preferenziale per la scelta di leader e candidati.
Il mito da sfatare
Ci sono state e ci sono delle eccezioni, come dimostra l’arrivo improvviso di Enrico Letta alla segreteria del partito. Ma circola ancora una venerazione quasi fideistica di questo strumento. A parlarne male si rischia di essere presi per iconoclasti o ancor peggio nemici della democrazia. Va però sfatato un mito. Le primarie non c’entrano nulla o quasi con la democrazia interna ai partiti. Hanno piuttosto a che fare con una concezione strumentale e individualista della politica, in linea con una cultura politica dominante di questi ultimi trent’anni: una cultura politica pervasa dal valore della realizzazione personale-individuale, dal farsi strada da solo o con il proprio manipolo di sodali, dal disdegno di ogni considerazione di fini o beni collettivi. Con l’esaltazione della competizione individuale per una carica, sminuendo le decisioni di organi collettivi, si è buttato alle ortiche quell’idea dell’agire collettivo, insieme e non contro altri, che dovrebbe essere alla base dell’azione di un partito. Soprattutto di un partito di origine socialista e solidarista come il Pd.
La democrazia interna
La democrazia interna ai partiti non passa solo per l’allargamento della platea di coloro che hanno potere di decidere (sui nomi). Anzi spesso questo strumento assume una curvatura plebiscitaria, in mano alle leadership per controllare le scelte.
L’inclusione nel processo decisionale necessita di altre condizioni per portare ad una maggiore democraticità interna. Innanzitutto va riconosciuta ad ogni opposizione interna piena legittimità e adeguate opportunità per operare. Il dissenso interno è una risorsa, anche quando sembra minare le basi stesse del partito (come la corrente dei nostalgici renziani dentro il Pd). Finché non supera la linea rossa della lealtà di partito non solo l’opposizione interna va accettata, ma anche tutelata.
Poi, proprio per evitare di ridurre la vita del partito alle primarie, gli iscritti vanno coinvolti nella progettazione delle politiche, sui temi, quindi, non sulle persone. Il neosegretario democratico è andato in questa direzione con il questionario inviato alla base. Un passo significativo di re-immissione del corpo collettivo nel processo decisionale. Mancano però altri tasselli.
La circolazione delle idee va promossa, in alto e in basso, avanti e indietro, attraverso gli organi collettivi. Nel passato i Comitati centrali o organismi simili si riunivano per più giorni per dibattere. Erano le sedi dove i dirigenti mettevano sul tavolo “la linea”, e dove le giovani leve avevano l’occasione di esprimersi e farsi valere. Erano, soprattutto, sedi collettive di incontro e discussione, poi replicate anche a livelli organizzativi minori. Questi spazi non sono stati travolti dalla rete, sono stati travolti dalla cultura della singolarità opposta a quella della collettività . Insistere sul mito delle primarie dimostra la perdurante soggezione all’input plebiscitario-populista dell’uno vale uno, e una deresponsabilizzazione totale della classe dirigente.
Troppo aperte
Le primarie all’italiana si intendono aperte, cioè accessibili a chi passa di lì e può non avere nessuna identificazione con il partito ma solo con il proprio candidato, al punto che se perde poi non voterà mai l’altro, come dichiararono molti sostenitori di Matteo Renzi alle primarie per il sindaco di Firenze nel 2009 (vedi Antonella Seddone e Marco Valbruzzi, Le primarie comunali di Firenze del 2009, in Quaderni dell’Osservatorio Elettorali). Si lasciano così le chiavi della scelta alla casualità o alle strategie degli avversari.
Eppure sarebbe semplice “ridurre il danno” : basterebbe riservare la decisione solo agli iscritti del partito – o dei partiti quando si fanno primarie di coalizione. Ma così si darebbe valore all’esser parte , oltre che al prender parte: proprio quello che la melassa post-ideologica e anti-partitica aborre.
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