Spiega l’enciclopedia Treccani che tra i significati del mito vi è quello di essere una rappresentazione ideale o ideologica della realtà che, proposta e narrata da chi svolge una funzione dirigente, viene accolta con fede quasi mistica da un popolo o un gruppo sociale. Il mito genera una legittimazione che non riposa necessariamente sulla razionalità. L’adesione per fede consente a un processo di andare avanti senza controllo da parte dei fruitori, mosso soltanto dalla logica con la quale è stato pensato e programmato.

I sistemi burocratici sono particolarmente esposti a questa rappresentazione mitologica, nati dal cervello della ragione funzionalistica dello stato moderno e operativi secondo regole concepite in modo tale da prevedere ogni possibile ostacolo o resistenza che li inceppi. La perfezione massima di questi sistemi autopietici è di espellere la volontà e il giudizio umani. Un sistema semovente deve sembrare naturale e procedere senza intervento umano. Questo alimenta sia il suo funzionamento che la fede nella sua totale indipendenza dalla discrezione della decisione.

La digitalizzazione del sistema burocratico – il mito più potente del nostro tempo – rientra in questa rappresentazione ideologica. I suoi promotori ricoprono la funzione sacerdotale di chi la celebra come la destinazione finale del processo di razionalizzazione del sistema amministrativo. La digitalizzazione sostituisce lo stuolo di funzionari, alcuni inefficienti, altri poco zelanti, altri assenteisti. Rimpiazza definitivamente le ragioni della disfunzione di quello che siamo stati per decenni abituati a chiamare “sistema borbonico”. Infine, realizza lo scopo dello stato amministratore, con generale felicità dei sudditi e massima economicità. Questo è il mito della digitalizzazione.

Interessi economici

Le cose sono però diverse, anche perché i sistemi informatici non si generano spontaneamente e la loro funzionalità dipende comunque da un’intelligenza umana, e, soprattutto, da interessi economici corposi.

L’innovazione informatica è un business molto lucrativo e non sempre dettato da motivazioni di efficienza (per fare un esempio, l’attuale versione del sistema di acquisto dei biglietti di Trenitalia è peggiore di quello precedente e chi lo usa non può fare a meno di chiedersi perché sia stato adottato).

Un problema ulteriore è la distanza dell’intelligenza sistemica dagli utenti, i quali sono molto spesso lasciati soli a districarsi in una rete di passaggi inanellati che dovrebbero portare al risultato desiderato.

Se un passaggio si inceppa, se il programma non prevede quel che può succedere, se ... se, il povero utente si trova molto spesso senza un interlocutore al quale esporre il suo problema e dal quale ricevere aiuto. La prigionia può diventare la condizione della digitalizazzione, se e quando questa viene concepita e gestita in modo da prevedere l’intervento umano solo come ultimissima spiaggia. La questione è tutt’altro che secondaria.

Soprattutto non è, come spesso si sente ripetere, frutto della fase transitoria di acclimatazione e aggiustamento degli utenti (di fatto i presunti soli responsabili delle disfunzioni del sistema digitalizzato). Non è solo l’esito dell’imperizia dei cittadini.

Escludere gli utenti

La digitalizzazione della burocrazia può essere una trappola (quando non è una forma di esclusione e discriminazione delle persone anziane, ma non solo). Può essere anzi un espediente per tenere gli utenti fuori del sistema di controllo e per aumentare il potere discrezionale di chi decide.

Nella burocrazia il giudizio di chi riceve il servizio è cruciale. Diceva Jeremy Bentham, uno dei padri fondatori dei sistemi amministrativi moderni, che solo colei che sente dove la scarpa preme sa dire se quella scarpa è giusta per lei ed eventualmente dove intervenire per aggiustarla. Il giudizio dell’utente di un servizio è il primo banco di prova, il primo esaminatore autorevole – il vero controllore.

Costruire un sistema burocratico in modo da neutralizzare il giudizio dell’utente equivale a far saltare la logica del sistema, situando il giudizio non dove dovrebbe stare. Non ci si faccia ingannare dalla richiesta che spesso ci viene fatta di esprimere il nostro giudizio sul servizio: si tratta di un diversivo che fa bene prima di tutto a noi, perché ci dà sollievo illudendoci che abbiamo un potere determinante. La vecchia burocrazia archiviava le nostre lamentele; lo stesso fa quella digitale.

Buona burocrazia?

Chiunque abbia sperimentato la digitalizzazione amministrativa – a partire dalle chiavi che servono per poterci entrare (a volte complicate ed esose da ottenere, come lo Spid) fino ai passi previsti per completare la navigazione – ha sperimentato anche la solitudine avvilente di stare di fronte a un ostacolo, probabilmente banale e facile da risolvere, che non si riesce a superare, e che molto spesso nessun umano è previsto che venga in aiuto. La digitalizzazione può essere una prigione.

Inoltre, molto spesso dilata i tempi invece di accorciarli. Quanto tempo si spreca nel tentativo di cercare di parlare con un operatore, oppure di indicare il proprio problema a una voce metallica che non è stata programmata per capire quel che succede a noi o del bisogno che abbiamo? L’inefficienza e lo spreco di risorse (tra cui deve essere contemplato il tempo degli utenti) possono essere facilmente trasferiti alla digitalizzazione, che dunque non è necessariamente il coronamento della buona burocrazia se a monte non vi è un decisore che sia non solo mosso dalle ragioni dell’efficienza, ma inoltre disposto ad accettare il controllo non aleatorio dei cittadini-utenti.

Questa è la condizione primaria della buona amministrazione di uno stato democratico, nel quale il ruolo dei sistemi digitali dovrebbe essere quello di assistere la volontà e il giudizio umani, non sostituirli; e infine di mai esonerare i decisori (che comunque esistono!) dal principio della trasparenza. Appellarsi al digitale come a una divinità o gridare le nostre frustrazioni contro un computer non sono propriamente indicazioni di razionalità!

 

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