Qualche settimana fa ha avuto eco mediatico un editoriale pubblicato sulla sezione “Salute regionale d’Europa” della prestigiosa rivista Lancet dal titolo Il sistema dei dati sanitari italiani è rotto” (Vol 48 January, 2025). 

In una sola pagina l’editoriale consegna al lettore una immagine impietosa ma alquanto realistica del sistema informativo sanitario italiano e delle sue mancanze e distorsioni.

La premessa corretta non poteva che partire dal calo demografico a causa dell'invecchiamento e della bassa natalità (- 8 per cento al 2050) e relativo ulteriore stress al sistema socio-sanitario. Poi passa alla frammentarietà dell'infrastruttura dei dati sanitari e l’assenza di un sistema compiuto di condivisione delle cartelle cliniche elettroniche ospedaliere e dei medici di base. Viene poi puntato il dito sulla assegnazione iniqua delle risorse alle regioni e sulle conseguenze negative della incompleta digitalizzazione e della mancata standardizzazione tra regioni in termini di creazione di registri nazionali, cure efficaci distribuite equamente sul territorio, gestione delle crisi. Tutto questo a fronte di una spesa di 1,8 miliardi di euro per la sanità digitale nel solo 2022 (+ per cento rispetto al 2021).

La mobilità

L’esempio delle differenze regionali durante la pandemia COVID-19 non poteva mancare. Forte è la critica anche alla mobilità sanitaria tra regioni, prevalente da sud a nord. Minore eco mediatico ha suscitato invece il richiamo alle conseguenze della difficile o impossibile accessibilità ai dati sanitari.

L’editoriale evidenzia le difficoltà dei ricercatori quando si rivolgono ai comitati etici e al garante per la privacy per attivare nuovi studi, ricevendo spesso un diniego, anche se si tratta di studi nell’interesse esclusivo della salute pubblica.

Lancet non fa sconti: «Mentre l'Europa ha adottato la cosiddetta base giuridica dell'interesse legittimo, che consente di utilizzare i dati sanitari per la ricerca e l'innovazione senza basarsi esclusivamente sul consenso individuale, la legislazione restrittiva dell'Italia e la frammentazione regionale ostacolano questi sforzi, non riuscendo a bilanciare i diritti alla privacy con l'interesse pubblico a migliorare l'assistenza sanitaria». 

Per gli studi epidemiologici i vincoli sono diventati quasi insormontabili, anche perché si tratta spesso di studi su vaste popolazioni, con impossibilità di chiedere il consenso informato a tutti gli individui.

ANSA

Gli studi epidemiologici

Oggi il percorso autorizzativo di molti studi sullo stato di salute delle popolazioni presentati ai responsabili per la protezione dei dati (DPO) è estremamente eterogeneo tra regioni e anche tra aziende sanitarie entro regione, e prevalentemente non porta ad autorizzazione.

Questo nonostante i protocolli di studio prestino molta attenzione a spiegare l’interesse pubblico degli studi e a dare garanzie di anonimato nel reperimento, trattamento e disseminazione dei dati.

Le conseguenze sono tanto più negative nelle aree inquinate dove gli studi su piccola scala geografica sono indispensabili per valutare l’andamento spaziale e temporale delle malattie ambiente-correlate, a effettuare analisi rischi-benefici, a indirizzare misure preventive di provata efficacia.

La gravità è massima nelle aree con siti di bonifica di interesse nazionale (SIN) dove gli studi epidemiologici su piccola scala sono raccomandati da enti scientifici, sono richiesti da comitati e associazioni, sono di interesse delle amministrazioni pubbliche, sono stati definiti e talvolta anche finanziati, ma – nonostante questo – non trovano miglior fortuna della realizzazione delle bonifiche.

Per molti studi epidemiologici il legittimo interesse è dimostrato in sé, in quanto rispondenti a interessi vitali e svolti palesemente nell'interesse pubblico, condizioni che sono richieste dal vigente Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR), oltre al fatto che gli strumenti disponibili permettono il trattamento dei dati nel rispetto della privacy.

Nonostante ciò, molte proposte di studio sono da anni in attesa di decisioni regolamentari in grado di superare le secche. Siamo al paradosso di dati sanitari spesso esistenti ma usati solo a scopi economico-gestionali in virtù di una concezione di sistema sanitario (pubblico+privato) centrata sul valore delle prestazioni piuttosto che sul diritto alla salute delle persone, stabilito dalla stessa Costituzione (art.32).

Il perdurante stallo di studi sulla salute adducendo la protezione della privacy dovrebbe preoccupare prima di tutto le amministrazioni pubbliche: la scarsa conoscenza sull’impatto sanitario delle pressioni ambientali, economiche e sociali non permette di programmare interventi in grado di mitigare efficacemente i fattori di rischio diminuendo le diseguaglianze.

Infine, l’editoriale di Lancet manifesta una forte preoccupazione per un ulteriore deterioramento legato alla legge sull'autonomia differenziata, temendo l’aumento della frammentazione e delle disparità tra regioni e le relative infauste conseguenze.

Oltre al miglioramento del sistema informativo sanitario è sempre più urgente una riflessione ampia sull’uso dei dati sanitari, partendo dalla centralità del valore etico del diritto alla salute, troppo spesso sottoposto ai fini commerciali e di controllo sociale.

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