- Il Partito democratico combatte ora per un obiettivo a portata di mano: diventare il primo partito italiano, impresa che alla sinistra arrise solo nel 1996, con il Pds di Massimo D’Alema.
- Le prime mosse sono indovinate. Puntare sul rosso e il nero, sui colori storici della sinistra e della estrema destra, ha messo in chiaro qual è la sfida del 25 settembre.
- Il richiamo all’identità e l’individuazione del nemico sono due elementi fondamentali di una campagna elettorale. Ne manca però un terzo. Un tema, uno slogan, una idea di futuro mobilitante.
Dopo i pasticci per le liste, il Pd è ripartito con il piede giusto. Ha puntato sull’identità e sulla consapevolezza di essere “un” grande partito, e “il” grande partito della sinistra.
L’umiliazione del 2018, quando fu doppiato dal M5s e quasi raggiunto dalla Lega, è alle spalle.
Il Partito democratico combatte ora per un obiettivo a portata di mano: diventare il primo partito italiano, impresa che alla sinistra arrise solo nel 1996, con il Pds di Massimo D’Alema.
Le prime mosse sono indovinate. Puntare sul rosso e il nero, sui colori storici della sinistra e della estrema destra, ha messo in chiaro qual è la sfida del 25 settembre.
Quella tra chi difende i valori costituzionali, i diritti civili e la giustizia sociale e chi si richiama alla triade reazionaria del Dio-Patria-Famiglia e a un passato appena mascherato dagli occhioni azzurri della leader - ma dietro alla quale si intravede il pizzetto sulfureo del suo vice, Ignazio La Russa, che nella sua qualità di vice-presidente del Senato, un anno fa aveva invitato a palazzo Madama un estremista come Roberto Fiore, protagonista dell’assalto squadrista alla Cgil.
Giusto per chiarire ai tanti distratti e smemorati i legami d’affezione e di vicinanza, senza confini, a destra, e di cui si possono trovare infiniti esempi.
Quindi, bene ha fatto il Pd a ribadire che esiste un fossato invalicabile di principi e di valori, oltre che di scelte politiche, tra la sinistra e la destra estrema.
Il richiamo all’identità e l’individuazione del nemico sono due elementi fondamentali di una campagna elettorale. Ne manca però un terzo. Un tema, uno slogan, una idea di futuro mobilitante.
Qualcosa che possa far dire a tutti: ecco, il Pd vuole questo. Qui invece il Partito democratico è ancora ai blocchi di partenza.
Alle promesse da paese di Bengodi della destra va contrapposto ben altro che la mitica agenda Draghi, buona solo per i salotti, gli uffici studi e le stanze del potere economico-finanziario.
Vanno invece fatte proposte chiare a chi vive con la pensione sociale o il reddito di cittadinanza, all’esercito del working poor, ai dipendenti con falsa partita Iva, all’esercito dei precari, dei sotto-occupati e dei disoccupati, cioè a quei milioni di persone che si sono allontanate dalla politica perché non hanno trovato rispondenza alle loro domande; e quando l’hanno trovata, prima con i Cinque stelle poi con Matteo Salvini, la delusione è stata cocente.
Il Pd vince se riesce ad andare oltre le Ztl e a riconnettersi con questa vasta platea ancora in bilico tra non-voto e sirene nazionalpopuliste (come accaduto alle europee del 2019, ma oggi con Meloni al posto di Salvini).
Per intercettare il consenso delle periferie, che fino al 2013 premiavano ancora il Pd, il partito deve riportare in primo piano la questione della giustizia sociale.
Lanciando due o tre idee forza che penetrino in quel mondo, riportandolo alle urne, a favore della sinistra.
Tre settimane passano in fretta, ma sono milioni a decidere all’ultimo momento. Non è troppo tardi per agguantare il primato.
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