- Cosa passa nella mente di individui che avvertono a tal punto capovolto l’ordine delle loro esistenze da non accettare più di vivere, ma nemmeno di lasciare in vita chi vedono come la causa del loro male?
- L’omicidio-suicidio, specialmente se mosso dall’intento di “punire” la donna, ci mette di fronte a un elemento nuovo per un fenomeno che dura da millenni.
- Ci costringe cioè a vedere come il supremo atto di potere, quello di decidere della vita e della morte altrui, coincida con il sentimento di un’estrema impotenza.
Nabil Dhahri aveva trentotto anni, un lavoro e “una vita tranquilla”, dicono i conoscenti. Eppure, una settimana fa ha sterminato la sua famiglia, uccidendo a coltellate la compagna Elisa Mulas, i loro due figli e la madre di lei. Infine, si è tolto la vita.
Uomini qualunque, uomini “normali”, riempiono le cronache dei quotidiani per i gesti efferati con cui uccidono le donne, al ritmo di una ogni tre giorni. La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne costringe a fare il conteggio delle vittime: 103 è il numero – ancora parziale – di quest’anno.
Gli uomini ammazzano le donne perché le ritengono “cosa” loro. Perché intendono punirle per presunte “trasgressioni”, o perché non tollerano di vederle andar via, vivere una vita autonoma, amare altre persone.
Un dato ricorrente deve però attirare la nostra attenzione: immediatamente dopo l’atto omicida, che coinvolge la donna ma spesso anche i figli o altri familiari, tanti (come Nabil) si suicidano.
Secondo l’ultimo rapporto della Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio, che analizza i casi di donne uccise per motivi di genere nel biennio 2017 e 2018, oltre un terzo degli autori, il 34.9 %, si è tolto la vita.
Cosa passa nella mente di individui che avvertono a tal punto capovolto l’ordine delle loro esistenze da non accettare più di vivere, ma nemmeno di lasciare in vita chi vedono come la causa del loro male?
L’omicidio-suicidio, specialmente se mosso dall’intento di “punire” la donna, ci mette di fronte a un elemento nuovo per un fenomeno che dura da millenni. Ci costringe cioè a vedere come il supremo atto di potere, quello di decidere della vita e della morte altrui, coincida con il sentimento di un’estrema impotenza.
La violenza si alimenta oggi di un vittimismo aggressivo. Segnale eloquente del fatto che l’ordine simbolico che ha sostenuto il potere maschile è ormai largamente in frantumi.
Fino ad appena quarant’anni fa in Italia, l’uomo che uccideva la moglie per offesa recata «all’onore suo o della famiglia» poteva beneficiare di un considerevole sconto di pena. E si muoveva all’interno di un codice culturale capace di indurre, se non apprezzamento, almeno comprensione per il reo.
È stata la legge n. 442 del 5 settembre 1981 a cancellare dal codice penale italiano il delitto d’onore.
Oggi siamo ancora immersi in una comunicazione pubblica intrisa di messaggi che giustificano i violenti e colpevolizzano le vittime. Ma si è rotto – forse per sempre – il rapporto di corrispondenza circolare tra diritto, senso comune, educazione, politica che faceva sì che gli uomini portassero il peso del delitto a testa alta.
Spinte contraddittorie e distruttive agitano il maschile: mentre i vecchi modelli appaiono obsoleti mancano riferimenti adeguati al presente. E, come scriveva Antonio Gramsci, è nell’interregno tra il vecchio e il nuovo che si verificano «i fenomeni morbosi più svariati».
Tra questi c’è la violenza di genere. Per contrastarla servono uomini nuovi, impegnati a ripensare se stessi e il proprio posto nel mondo.
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