- «Velocizzare le istituzioni, facendo il presidenzialismo», questo ha annunciato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante la lunga conferenza stampa di fine anno.
- Un’affermazione che denota incertezza politica ed incompetenza della materia.
- Se c’è un sistema istituzionale che non accelera il processo decisionale, è esattamente la forma di governo presidenziale.
«Velocizzare le istituzioni, facendo il presidenzialismo», questo ha annunciato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante la lunga conferenza stampa di fine anno. Un’affermazione che denota incertezza politica ed incompetenza della materia, ma che pochi, soprattutto tra i partiti, hanno fatto notare criticamente all’inquilino di Palazzo Chigi.
Se c’è un sistema istituzionale che non accelera il processo decisionale, è esattamente la forma di governo presidenziale. Un complesso di istituzioni, di pesi e contrappesi, che compensano, controllano, mitigano la concentrazione del potere nelle mani di ciascuno degli attori politici ed istituzionali, affinché mai nessuno davvero prevalga per troppo tempo ma sia costantemente sottoposto, e sottomesso, al controllo, al processo di rendere conto, e infine al vaglio del corpo elettorale.
Il presidente eletto direttamente non può essere sfiduciato, il suo mandato è fisso, e può essere revocato solo per via extra istituzionale ordinaria, posto che con l’organo legislativo non esiste un rapporto di investitura.
Una volta che il partito abbia selezionato un candidato e sia stato confermato dagli elettori, costoro saranno costretti a tenerselo, più o meno stretto, per l’intero mandato, e caso mai a riflettere sui loro errori.
La separazione dei poteri, la doppia legittimazione dell’esecutivo e del legislativo, possono inoltre condurre al governo diviso, la situazione di maggioranze politiche di colore diverso.
Una condizione non affatto desueta e che nel contesto statunitense è ormai quasi strutturale, circa i due terizi del tempo dagli anni Sessanta.
L’esito di questo equilibrio di poteri può portare a uno stallo decisionale, solvibile soltanto per via politica, ossia tramite un accordo tra le parti, per nulla scontato.
E che vede il presidente costretto a rivolgersi alla nazione per biasimare il blocco e l’ostilità del parlamento al fine di tentare di sbloccare la situazione.
Alcuni casi eclatanti sono il rischio di blocco del Bilancio federale o l’approvazione di politiche importanti, quali il controllo delle armi. Altro che velocizzare.
Il capo dell’esecutivo non ha poteri di iniziativa legislativa e deve pertanto fare affidamento sul suo partito e anche i decreti sono una arma debole cui ricorre esattamente per aggirare le trame parlamentari.
Il presidente non è a Hollywood
Se andiamo, dunque, oltre la macchiettista interpretazione cinematografica del presidente che va in giro con una valigetta colma di codici e pronta all’uso per dichiarare guerre, o di un uomo chiuso nella stanza Ovale chino ad assumere decisioni unilaterali da cui discendono effetti diretti, emerge un presidente imbrigliato, costretto a lunghe, estenuanti, permanenti e costose negoziazioni.
All’interno del proprio partito o della colazione (in Brasile quasi sempre più di cinque), con quelli di opposizione, con il parlamento, con l’organo giudiziario, e ovviamente con i cittadini/elettori. Senza dimenticare le istituzioni sub nazionali che nei contesti federali assumono un ruolo centrale.
La gestione dell’emergenza Covid rappresenta emblematicamente la forza presidenziale che si confronta e scontra con il denso sistema di poteri istituzionali e politici: negli Stati Uniti gli ordini esecutivi del presidente e i divieti sanitari hanno spesso trovato applicazione soltanto nei palazzi federali e anche all’interno degli stessi stati c’erano città che adottavano misure differenziate.
I dati comparati indicano che rispetto al presidente presunto decisionista, il Primo ministro con un partito coeso e con una percentuale di voti e seggi attorno al 40 per cento che governi attraverso un monocolore o una coalizione di 2-3 partiti sarà certamente più “veloce”, per usare la sgrammaticata espressione di Meloni.
I sistemi di governo ad elezione popolare diretta del capo dello stato – presidenziale e semi-presidenziale – rappresentano la stragrande maggioranza dei paesi nel mondo. Va altresì segnalato con forza, dati e metodo che nessun pericolo per la democrazia viene dai sistemi ad elezione popolare diretta, come dimostrano pile di ricerche internazionali.
Il centro sinistra non abbia ancora la sindrome del tiranno, e i candidati alla guida del Pd dicano parole chiare su questo, incalzando le confuse bozze di riforme avanzate dal governo.
Si può e si deve discutere laicamente sia del sistema presidenziale che di quello semi-presidenziale, esigendo però che la maggioranza di destra presenti un progetto organico. Che ancora manca e invece rimanda a meri slogan, confusi, incerti, errati completamente nel metodo e nel merito.
Confusione pericolosa
La presidente del Consiglio fa riferimento al sistema presidenziale, ma nei fatti pare si riferisca a quello semi-presidenziale, denotando ancora incertezza politica oltre che cognitiva. I sistemi non sono fungibili, non si tratta di mera definizione o di differenza semantica, ma sostanziale.
È richiesta maggiore accuratezza per temi così delicati. I sistemi presi a modello sono sempre forieri di disavventure posto che essi vanno contestualizzati e soprattutto bisogna considerare l’intero assetto.
Non si possono copiare singoli elementi, in una sorta di spesa istituzionale à la carte: le riforme vanno costruite tenendo insieme il complesso delle variabili per evitare di generare mostri.
Presidente Meloni, si consulti meglio prima di avventurarsi in riforme che non si “fanno”, ma che progettano, discutono, votano e infine si approvano. Ovvero si respingono, come in questo caso.
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