- La questione del doppio mandato che agita il Movimento 5 stelle è al tempo stesso assai banale e assai bizzarra. Ovvie le questioni implicate. Per esercitare la difficile arte parlamentare è essenziale l’esperienza. D’altra parte una lunga durata nell’ufficio può distrarre dal servizio pubblico e indurre a comportamenti corrotti.
- I 5 stelle non chiedono di ridurre l’autonomia e la durata dei parlamenti, ma intendono intervenire sulle loro candidature. Un tema rilevante, sempre e ovunque, specialmente in regime di partiti (chi candida chi?), ma che nessuna legge elettorale può regolare.
- Così dimostrano di non fidarsi né del proprio elettorato, né dei propri candidati, né del proprio nonpartito, e vogliono preventivamente tagliarsi gli attributi.
La questione del doppio mandato che agita il Movimento 5 stelle è al tempo stesso assai banale e assai bizzarra. Ovvie le questioni implicate, e più volte sollevate tra i militanti, al di là delle convenienze dei singoli. Per esercitare la difficile arte parlamentare, l’esperienza, la conoscenza della macchina, la pratica sono attributi essenziali.
La lunga pratica congressuale è stata essenziale ad esempio nelle candidature dei vice presidenti americani che hanno accompagnato le stelle della prima linea, come John Fitzgerald Kennedy e Barack Obama, vice che sono diventati a loro volta presidenti “operativi”, come Lyndon B. Johnson e Joe Biden.
D’altra parte una lunga durata nell’ufficio può distrarre dal servizio pubblico, indurre a comportamenti corrotti che da sempre macchiano la malagenìa dei politicanti. C’è una soluzione formale, normativa al dilemma? No, non c’è. Eppure, dei pregi e delle virtù della durata dei mandati si discute da sempre, perché riguardano l’essenza stessa della politica e della rappresentanza nazionale.
Sottolineo nazionale, giacché la rispondenza ai bisogni dei governati è di immediata percezione nelle comunità minori, mentre è più problematica a livello nazionale. La storia della rappresentanza parlamentare e la doppia storia della costruzione di una distanza, di una emancipazione del politico dal sociale, e per converso del continuo riproporsi di una esigenza di vicinanza, di aderenza alla configurazione sociale e alla volontà dell’elettorato.
Quanto dura il mandato
Se ne è discusso molte volte parlando di durata del mandato. Il Triennal Act inglese del 1694, che prevedeva una elezione generale ogni tre anni, fu cancellato dal Septennial Act del 1716, che portando l’intervallo a sette anni evidentemente garantiva al governo maggiore stabilita, ma indeboliva il controllo del Parlamento. La questione è tutta lì. Tra le diverse esigenze – governabilità ed efficienza, rappresentatività e democraticità, controllo - i sistemi si sono assestati su una durata media, del tutto convenzionale, di 4-5 anni. E già sappiamo che molti problemi rimangono: nella fase finale i parlamentari tendono a pensare ad altro.
Come sappiamo, negli Stati Uniti si guarda alle elezioni di medio termine. Peraltro in quel paese le norme che hanno consentito finanziamenti illimitati e il costo spropositato delle elezioni fanno sì che un deputato appena eletto non pensi ad altro che a farsi rieleggere. Ma lo si vede anche da noi, oggi: la destra che cresce nei sondaggi chiede che si voti presto, i 5 stelle o il Pd preferiscono rimandare. Ma per molti motivi, anche funzionali, è auspicabile che le legislature giungano al compimento naturale.
Il pensiero repubblicano più radicale, restìo ad accettare il mandato, le ha pensate tutte, come la revocabilità del mandato e il mandato imperativo invocato dalla Comune di Parigi nel 1871. E in ogni caso ha sempre preferito mandati brevi: «per evitare che gli eletti possano mai crearsi un interesse distinto da quello dei loro elettori – scriveva Thomas Paine in Common sense (siamo nel 1775) – la prudenza suggerirà di indire elezioni con molta frequenza; difatti, se grazie a questo meccanismo la persona che è stata eletta tornera a mescolarsi alla massa degli elettori nel giro di pochi mesi, la sua fedeltà nei confronti della collettività verrà garantita dalla sua prudente preoccupazione di non scavarsi la fossa con le proprie mani».
Il tema si è riproposto in tutta la storia dei parlamenti; nel dibattito costituente americano i federalisti come James Madison, che pure vedevano i rappresentanti come un «corpo scelto» di cittadini, una élite di provata saggezza, ritenevano che essi dovessero essere sottoposti a vincoli, sanzioni e controlli, e tra queste elezioni frequenti. Ma non era diverso nell’Atene del VI secolo avanti Cristo, dove le magistrature erano estratte a sorte per un anno, ed erano sottoposte ad ogni sorta di controllo.
Sistemare i trombati
La questione del doppio mandato discussa dai Cinque Stelle tocca questi temi, ma loro... non lo sanno. Una caratteristica singolare – tutta da indagare - di un partito che ha mostrato solidità e durata è quello di avere basi culturali riguardanti questioni ambientali, in parte economiche (le cinque stelle sono acqua, ambiente, trasporti, connettività e sviluppo) e di essere entrato nelle istituzioni senza prendersi la briga di sfogliare un manualetto esplicativo.
Si è fidato solo dell’antipolitica (tagliamo le poltrone, abbasso i vitalizi, non chiamiamoli onorevoli...) per il resto inventando l’acqua calda, condita di neologismi senza significato (il non partito, il non statuto, il MoVimento). Si ritrovano così disarmati di fronte a ciò che la politica conosce e discute da sempre, ad esempio che non è questione di Conte / Casaleggio / Grillo, è solo che il popolo in scena senza mediazione (disintermediazione!) equivale al potere assoluto del singolo, al dispotismo dicevano i classici. E pensare che sarebbe bastato scorrere a caso gli scaffali di una biblioteca, magari cominciando dalla A di Aristotele.
Così avviene per la questione del doppio mandato.
Con una peculiarità. I 5 stelle non chiedono, come i loro illustri predecessori, di ridurre l’autonomia e la durata dei parlamenti, ma intendono intervenire sulle loro candidature. Un tema rilevante, sempre e ovunque, specialmente in regime di partiti (chi candida chi?), ma che nessuna legge elettorale può regolare, attenendo all’autonomia delle formazioni politiche. Ciascuno candida chi vuole, sarà poi l’elettorato a decidere se il candidato tale è un esperto o un mangiapane a ufo.
Ma i 5 stelle non si fidano né del proprio elettorato, né dei propri candidati, né del proprio nonpartito, e vogliono preventivamente tagliarsi gli attributi, così cacciandosi nel buco nero di cui sopra: i parlamentari di lunga durata, anche i loro, diventano dei parassiti, e l’esperienza maturata dai migliori va a farsi benedire. Hanno pronto un rimedio, mutuato dagli orridi “partiti del secolo scorso”: sistemare i trombati. Nel loro caso suona così: non ci dimenticheremo del generoso servizio prestato al popolo in dieci anni, una utilizzazione adeguata si troverà.
© Riproduzione riservata