- Se i colori delle Regioni italiane dipendessero dalla situazione dei Pronto soccorso anziché da quella delle terapie intensive, saremmo tutti in rosso già da un pezzo.
- La fuga di medici e infermieri dai Pronto soccorso è inarrestabile e i concorsi per assumerne di nuovi vanno deserti.
- In questo quadro drammatico le Regioni e il Ministero aprono tavoli di lavoro, insediano commissioni, esprimono solidarietà, ma non producono alcun progetto di ampio respiro. Il Pronto soccorso, baluardo della medicina universalistica, aperto a tutti e a tutte le ore, sta affogando nell’ indifferenza delle istituzioni.
Se i colori delle Regioni italiane dipendessero dalla situazione dei Pronto soccorso anziché da quella delle terapie intensive, saremmo tutti in rosso già da un pezzo. E avremmo dovuto esserlo ancora prima della quarta ondata di Covid.
La situazione drammatica in cui versano i reparti che devono rispondere alle emergenze più critiche della nostra salute è andata peggiorando fino a raggiungere in molte regioni il punto di rottura. Oggi nei grandi ospedali lombardi chi deve essere ricoverato attende in media due giorni prima di poter accedere a un reparto di degenza, con punte di dieci giorni.
Non ci vuole molta fantasia per capire quali conseguenze possa avere sulla qualità delle cure ricevute dai pazienti e sullo stress lavorativo degli operatori il fatto che un medico di Pronto Soccorso si trovi abitualmente a operare con decine di pazienti in carico, molti dei quali a rischio di vita.
La letteratura scientifica del settore dimostra come l’affollamento del Pronto soccorso e il numero di pazienti assistiti da ogni medico e da ogni infermiere correlino con il rischio di gravi complicazioni e di morte, eppure questo non stimola interventi risolutivi.
In fuga
La fuga di medici e infermieri dai Pronto Soccorso è inarrestabile. All’Ospedale San Carlo di Milano 16 dei 24 medici del Pronto soccorso si sono dimessi nell’ultimo anno, dopo che la direzione dello stesso ospedale aveva rimosso dalla carica di direttore di dipartimento (e poi costretto all’aspettativa) la loro primaria, rea di non aver bloccato una lettera in cui 50 tra medici e infermieri lamentavano la drammatica situazione in cui si trovavano ad operare.
Il concorso per assumere nuovi medici andrà con ogni probabilità deserto, come vanno deserti i concorsi continuamente aperti e chiusi da tutti i medi e piccoli ospedali lombardi e di molte altre regioni d’Italia. Tengono botta, con fatica, gli ospedali più grandi e i policlinici universitari che possono attingere al serbatoio dei nuovi specialisti che escono ogni anno dalla scuola di specializzazione in medicina di emergenza-urgenza, scuola che nel 2021 è però riuscita ad assegnare poco più della metà delle borse disponibili.
La pandemia sta dando il colpo definitivo al sistema ospedaliero dell’emergenza che barcollava già da tempo.
Delle cause ho già avuto occasione di scrivere: l’insufficienza e la pessima programmazione dei posti letto ospedalieri, l’inadeguatezza della medicina territoriale, la sottovalutazione delle esigenze di risorse umane e professionali, il sistema di retribuzione degli ospedali che influisce sulle scelte gestionali senza tenere conto dei reali bisogni della popolazione. In Lombardia anche, e forse soprattutto, una parificazione tra pubblico e privato che in realtà favorisce il secondo, molto meno condizionato da regolamenti e vincoli di bilancio che impediscono alla sanità pubblica di prendere decisioni veloci ed efficienti.
Chi guadagna
Un altro settore della medicin privata, quello delle cooperative di professionisti, trae vantaggio dalla disastrata situazione dei Pronto soccorso lombardi. Medici e infermieri “gettonisti”, con livelli di formazione spesso inadeguati, vengono offerti a caro prezzo agli ospedali con l’acqua alla gola per coprire turni altrimenti impossibili da sostenere.
La qualità e l’uniformità nel livello delle prestazioni, la soddisfazione degli utenti, la formazione degli operatori sono cose di cui nessuno osa nemmeno più parlare. L’unica cosa importante è coprire i turni, evitare di finire sui giornali, sfuggire alle denunce.
In questo quadro drammatico le regioni e il ministero aprono tavoli di lavoro, insediano commissioni, esprimono solidarietà, ma non producono alcun progetto di ampio respiro e scaricano tutta la responsabilità sulla pandemia: il Coronavirus se ne andrà, ma i problemi resteranno.
Intanto i medici di medicina generale continuano a guardarsi bene dal rendere i propri ambulatori ambienti tecnologicamente adeguati e quelli di loro che hanno (e sanno usare) un elettrocardiografo o un ecografo restano mosche bianche. Centinaia di anziani chiamano ogni giorno il 118 perché non sono riusciti a contattare il proprio medico o la guardia medica.
Il Pnrr assegna miliardi di euro per dotare la medicina territoriale di nuove strutture, ma neppure un euro per il personale che non si sa dove si troverà, se si troverà e a quali progetti verrà assegnato.
Tra i cittadini, chi può permetterselo ricorre alle visite specialistiche private, sempre più faticose da prenotare negli ospedali pubblici. Resta il privato puro, a costi esorbitanti. Oppure il Pronto soccorso, con le sue lunghe attese, le sue barelle scomode, la sua promiscuità, i suoi medici in deficit di sonno e i suoi infermieri in burn out. Resta quel baluardo della medicina universalistica, aperto a tutti e a tutte le ore, che sta lentamente affogando nella sostanziale indifferenza delle istituzioni.
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