- II suicidio della studentessa dello Iulm di Milano di cui si è avuta notizia qualche giorno fa è una tragedia che lascia sbigottiti.
- La risposta più urgente a tragedie simili è di solito il potenziamento della risposta medica: bisogna incrementare gli sportelli psicologici.
- Continuiamo a medicalizzare il dolore, spostando negli negli studi psichiatrici quello che dovrebbe essere al centro delle pubbliche piazze: una società che ogni giorno bombarda i suoi cittadini con le logiche velenose e performative del mercato e poi, nel migliore dei casi, gli paga lo psicologo.
Un suicidio è sempre un evento con radici insondabili, che si può indagare solo fino a un certo punto. Tanto più nel caso del suicidio della studentessa dello Iulm di Milano, si è di fronte a una tragedia che lascia sbigottiti.
Non è di lei che voglio parlare, ma di un’analogia tra chi, in diversa misura interpellato dall’evento, ha dovuto commentarlo.
Gianni Canova, rettore dell’Università Iulm: “Sappiamo che le richieste di aiuto ai nostri sportelli di counselling psicologico sono negli ultimi mesi più che raddoppiate. Le abbiamo affrontate e le stiamo affrontando: continueremo ad ascoltare la voce di chiunque manifesti disagio”.
Anna Maria Bernini, ministra dell’Università: «Servono sportelli psicologici in ogni università». Camilla Piredda, coordinatrice dell’Unione degli Universitari: «La nostra paura è che l’interesse verso il malessere giovanile e la salute mentale scemi rapidamente. Serve potenziare gli sportelli di counseling offerti dagli atenei».
Tre soggetti molto diversi tutti d’accordo su un unico punto: il suicida è un malato a cui probabilmente non si è fatta la diagnosi in tempo.
Concordano poi anche su un secondo punto: la risposta più urgente a tragedie simili è il potenziamento della risposta medica: bisogna incrementare gli sportelli psicologici.
Il suicidio come l’esito estremo di una patologia: siamo tornati all’Ottocento, quando all’ondata di suicidi giovanili dopo l’epocale delusione napoleonica, si dava la colpa a Goethe, al giovane Werther e alla “malattia del romanticismo”.
Oggi come allora, a una generazione che urla in tutti i modi il proprio rifiuto del mondo, si risponde alla solita maniera, alla Foucault: medicalizzando la questione. Il messaggio implicito, terrificante, è questo: disperazione e disagio mentale sono la stessa cosa.
Pensare, davanti al suicidio di una diciannovenne intossicata dal pensiero del fallimento, che un buon analista avrebbe potuto salvarla, è una grave disfunzione culturale.
Il dolore esiste
Continuiamo a medicalizzare il dolore, spostando negli negli studi psichiatrici quello che dovrebbe essere al centro delle pubbliche piazze: una società che ogni giorno nelle istituzioni, nei media e nei luoghi di lavoro bombarda i suoi cittadini con le logiche velenose e performative del mercato e poi, nel migliore dei casi, gli paga lo psicologo.
Siamo una società dove, per un formidabile fenomeno di cecità collettiva, trattiamo come disturbi patologici fenomeni che i numeri dovrebbero indurci a considerare, invece, fisiologici: ansia, depressione, tendenze suicide, dirette conseguenze di una cultura del lavoro che ossessivamente continuiamo a portare avanti come fosse l’unica strada possibile.
Che questa posizione di tamponamento privo di orizzonte ideologico venga sostenuto da un politico, è (purtroppo) nell’ordine delle cose; ma che la pensino così anche le associazioni studentesche, è segno della profondità del problema.
Scriveva Mark Fisher (altro morto suicida): «Il realismo capitalista non ha mai tentato di persuadere la gente che il capitalismo fosse un sistema particolarmente efficace: mirava piuttosto a convincerla che fosse l’unico sistema praticabile e che era impossibile costruire un’alternativa. Sapere che il malcontento è quasi universale non modifica la convinzione che il capitalismo controlla il gioco e che noi non possiamo farci niente, che è quasi una forza della natura cui non è possibile opporre resistenza».
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