Il vicepremier Matteo Salvini ha attaccato la magistrata del tribunale dell’immigrazione, chiedendo la separazione delle carriere. Ma i due fatti non possono avere nulla a che vedere uno con l’altro, a meno che non voglia far capire che la separazione serva a fare in modo che il governo possa garantirsi un presidio politico in sede giudiziaria
Inaccettabile e inquietante il polverone polemico sollevato intorno al provvedimento della giudice di Catania che non ha convalidato un trattenimento in Cpr. Ometto il nome perché i magistrati non devono comparire in prima pagina, né per esecrabili linciaggi mediatici, come in questo caso; né per narcisistici sfoggi autopromozionali, come pure è accaduto: la collettività deve giudicare le parole della giustizia, non le labbra che le hanno pronunciate.
Ovviamente la decisione, come ogni altro provvedimento giurisdizionale, può essere valutata e, se del caso, criticata, censurando l’itinerario logico-giuridico che ne è alla base, con argomenti di diritto, usando parole tanto più misurate, quanto più alto è il ruolo istituzionale ricoperto. Ove si sia legittimati, poi, si possono naturalmente attivare i rimedi giurisdizionali: ineccepibile, al riguardo, il preannuncio di un ricorso in Cassazione del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi.
Inaccettabile è, invece, la lapidazione mediatica con pietre verbali gravemente lesive dell’immagine e della reputazione della magistrata di cui non si condivide il pronunciamento.
Accusare la giudice che ha emesso il provvedimento in questione di essere «nemico della sicurezza nazionale», «legislatore abusivo», «scafista in toga», «toga rossa che rema contro» significa ammettere di dover ricorrere ad argomenti ad personam in mancanza di argomenti ad rem. E significa anche confessare il proprio analfabetismo costituzionale.
Inquietante, poi, il rimedio invocato per evitare che simili, non gradite decisioni si ripetano. Più di una penna di noti giornalisti in questi giorni si è avventurata a sostenere che la vicenda in questione conferma quanto sia urgente una riforma della giustizia.
Sarebbe interessante capire quale riforma, diversa da una selezione politica dei magistrati tale da renderli fedeli funzionari della maggioranza al potere, possa dare l’auspicata garanzia.
Cosa c’entrano le carriere?
Il vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini, ha spiegato che, quanto al presente, «la Lega chiederà conto del comportamento del giudice siciliano in parlamento» (un anacoluto costituzionale), quanto al futuro, bisognerà evitare che i tribunali possano «essere trasformati in sedi della sinistra», precisando che «è con questo spirito» che sarà apprestata «la riforma della giustizia, con separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati che sbagliano».
A una persona dell’esperienza e della cultura politica del ministro Salvini non sfugge di certo che la separazione delle carriere non ha nulla a che fare con l’obbiettivo perseguito.
A meno che, con rispettabile franchezza, non voglia far capire che la separazione dovrà secondo lui comportare una dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, in modo che il governo possa garantirsi un presidio politico in sede giudiziaria. Ma soltanto l’altro ieri il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, al congresso dei magistrati di Area, ha solennemente affermato che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo è una bestemmia.
Non resta che sperare che questi opposti “catechismi” governativi in materia paralizzino la preannunciata riforma della giustizia penale di cui, prima ancora che gli effetti, preoccupano le ragioni ispiratrici.
Dietro alle quali talvolta affiora anche l’allarmante obbiettivo della normalizzazione giudiziaria, esplicitato con ruvida schiettezza dall’onorevole Maurizio Gasparri: «La magistratura è da tempo il primo problema del paese. Altro che riforma, servirebbe una rifondazione di una Istituzione che appare nemica delle esigenze primarie degli italiani».
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