L’estensione del limite dei mandati per i presidenti di regione fa intravedere il rischio di creare delle oligarchie. Prevederla non è uno scandalo ma serve una pausa per evitare “intrighi e corruzione”
«Il desiderio di essere rieletto domina tutti i pensieri del presidente degli Stati Uniti». Alexis de Tocqueville, filosofo, politico e pensatore racchiuse in poche parole l’essenza della presidenza americana, vera novità politica e istituzionale magistralmente raccontata in La democrazia in America.
La scelta di George Washington di non ricandidarsi alla fine del secondo mandato mise in secondo piano il tema cruciale della rielezione fino al 1940 allorché F.D. Roosevelt ruppe quella consuetudine giungendo fino alla quarta presidenza.
Il limite alla rielezione è un tema dibattuto, articolato, che chiama in causa aspetti etici, politici, formali e sostanziali.
I “controlli e bilanciamenti” propri del sistema istituzionale presidenziale includono anche limiti alla rieleggibilità del capo dello stato che è anche capo del governo. Limitare l’ambizione con l’ambizione, come nella disamina di Jefferson.
Contenere la concentrazione di potere evitando che permanga per troppo tempo nelle stesse mani, per questo quasi tutti i paesi democratici prevedono un limite per le cariche monocratiche. Mentre in quasi nessun caso esistono limitazioni costituzionali alla rielezione per incarichi di rappresentanza.
Il parlamento ha, tra le altre, una funzione rappresentativa e l’impatto di un singolo in un’assemblea ampia non è decisivo, per quanto costui possa essere influente e potente. Un esempio su tutti: Joe Biden è stato rieletto senatore in Delaware dal 1972 al 2008. Uno smacco per i populisti nostrani che vedono nella rielezione dei rappresentanti del popolo addirittura una casta.
Limitare il governo
Viceversa, la concentrazione del potere nelle mani di uno stesso soggetto rischia di debordare, travalicando i confini democratici.
È necessario distinguere dunque tra cariche monocratiche e funzioni rappresentative, tra chi detiene potere esecutivo e chi invece ricopre ruoli legislativi. Se partiamo dal livello istituzionale più basso, i comuni, emerge un problema specialmente per i piccoli centri ove in taluni casi è complicato persino trovare persone disposte a candidarsi: in questi casi la rielezione è stata ammessa.
Per le città con maggior numero di abitanti (sopra i 15.000 abitanti) la discussione circa la possibilità di ammettere il terzo mandato per il sindaco è ancora in corso e contiene ragionevoli argomenti a favore e valide riflessioni contrarie.
Per il parlamento non esiste – giustamente, come detto – un limite al numero di elezioni possibili per un deputato/senatore. Il dibattito è invece molto acceso per la presidenza delle giunte regionali, per le quali la norma nazionale prevede che non sia possibile essere eletti per più di due volte. Infine, ci sarebbe la riforma costituzionale per l’elezione diretta del capo del governo, un unicum mondiale, un progetto mediocre, pasticciato e illogico.
I presidenti di regione
Per il “terzo mandato” ai presidenti regionali la questione è segnata, al momento, da una distanza apparentemente molto forte sia tra i partiti sia all’interno delle coalizioni.
Fratelli d’Italia pare irremovibile sul diniego, posizione cui si accoda anche Forza Italia. Il Pd è in sostanza contrario, ma ci sono alcune frange che vorrebbero l’estensione del limite di mandato. Unica apertamente favorevole alla modifica normativa è la Lega, che per pure ragioni di gestione interna (sostituzione di Luca Zaia alla guida della regione Veneto) perora la causa.
Dal punto di vista istituzionale le regioni sono un ibrido poiché il presidente è eletto direttamente, ma il consiglio può votare la sfiducia (cosa che non avviene nei sistemi presidenziali), anche se rispetto ai sistemi parlamentari il consiglio sfiduciante verrebbe sciolto anticipatamente.
Non vale nemmeno la comparazione con il sistema dei governatori statunitensi perché in quel caso si tratta di una logica istituzionale analoga a quella presidenziale e infatti, per i “capi” dei governi sub federali, esistono limiti di mandato sebbene diversi tra stati.
Per le regioni italiane vige dunque una norma che implica il “simul simul”, ossia la fine istituzionale sincrona sia del presidente sia dell’assemblea. È dunque cruciale distinguere concettualmente e politicamente, oltre che dal punto di vista istituzionale, tra i limiti posti alla rielezione per le cariche assembleari e quelli per i ruoli monocratici stante la rilevante differenza in termini di potere in capo ai secondi.
Attualmente la norma già prevede per i presidenti di giunta la «non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo». Il numero di due mandati è un punto di equilibrio tra la necessità di conferire al presidente un congruo spazio temporale e quello di garantire la maggiore circolazione delle élite.
Serve una pausa
Un modello adottato in vari sistemi presidenziali potrebbe essere reso esplicito per i presidenti di regione (attualmente quattro allo scadere del secondo mandato a elezione diretta) e per i sindaci: possibilità di essere ri-eletti senza limite, ma con una pausa dopo due mandati consecutivi, come avviene tra l’altro in Argentina, Brasile, Finlandia e Portogallo, oppure dopo un solo mandato come normato in Cile, Costa Rica, Perù e Uruguay.
Una soluzione di compromesso che potrebbe garantire la ri-elezione, ma temperata dalla indispensabile rotazione della classe di governo, proprio nel caso delle regioni, uniche con sistema monocratico che governa ingenti risorse finanziare e una dose significativa di materie.
Si tratta di garantire gli interessi soggettivi, le legittime ambizioni politiche e/ma al contempo tutelare i fondamentali della democrazia evitando il rischio oligarchico. Perché «quando il capo del potere esecutivo è rieleggibile, lo stato stesso intriga e corrompe». Non è una legge quanto scrisse Tocqueville, ma indica un rischio da ponderare, valutare e limitare.
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