La presidente del Consiglio torna sui manganelli e marca di nuovo la distanza dal Quirinale. Dalla libertà di stampa alla commissione Covid, tutte le volte che ha ignorato Mattarella
«Ritengo ingiusta la sistematica campagna di denigrazione alla quale siete stati sottoposti». Mercoledì a palazzo Chigi Giorgia Meloni ha incontrato i sindacati delle forze dell’ordine, e si è schierata a loro difesa nella vicenda delle manganellate sulle teste dei ragazzini di Pisa. Contro chi, però, Meloni non lo dice.
Chi sarebbero i presunti autori della «campagna di denigrazione», visto che c’è un’inchiesta in corso e le verifiche sarebbero su una quindicina di poliziotti? Già la scorsa settimana scorsa la premier aveva parlato del «gioco pericoloso» di chi vuole «togliere il sostegno delle istituzioni a chi ogni giorno rischia la sua incolumità per garantire la nostra».
Chi? Poi aveva spiegato che per «istituzioni» intendeva «la sinistra». Ma era stato il capo dello stato a dire che «i manganelli sui ragazzi esprimono un fallimento». Del resto sarebbe curioso credere che la premier confonda «istituzioni» con le parti politiche.
Mercoledì, comunque, ha smesso di preoccuparsi di essere mal interpretata. «Nel 97 per cento delle manifestazioni che si sono svolte in questi mesi non c’è stata alcuna criticità.
Solo nel 3 per cento dei casi si sono riscontrate criticità e questo dimostra l’ottima gestione dell’ordine pubblico», ha detto ai sindacalisti, «sono dati, questi, che è giusto ribadire e sottolineare, perché» e qui si inserisce quella frase equivoca, «ritengo ingiusta la sistematica campagna di denigrazione alla quale siete stati sottoposti».
La coabitazione difficile
Chi ci spiega che il ragionamento della premier non sottintenda una risalita per li rami proprio fin su a Mattarella, deve fare un’arrampicata scivolosa. Anche perché ormai palazzo Chigi non si preoccupa neanche delle forme. Né della tempistica. Il nuovo intervento sui fatti di Pisa arriva il giorno dopo in cui si sono misurate nuove distanze fra gli inquilini dei due palazzi. Martedì Meloni, dall’Abruzzo, aveva attaccato la libertà di stampa nelle stesse ore in cui il presidente, dal Colle, l’aveva difesa sulla base della Costituzione di cui è garante.
L’attacco ai cronisti del resto è ormai un classico per la premier. Quanto il principio della libertà di espressione è una preoccupazione ricorrente per Mattarella: per esempio nel discorso della cerimonia del Ventaglio del luglio 2023 gli ha dedicato un lungo passaggio, concludendo che «i giornalisti devono essere al riparo da ogni forma di intimidazione».
Se c’è una narrazione che il Colle non avalla, anzi cerca di evitare e smentisce, è proprio quella della contrapposizione fra i due presidenti. Ma è un’accortezza alla quale ormai governo e maggioranza non fanno più caso. Anzi, l’obiettivo ormai sembra rendere esplicita la coabitazione difficile.
Un atteggiamento che oggi sembra accelerare, ma che viene da lontano. Dai messaggi del Quirinale sull’immigrazione (agosto 2023, «no all’odio e ai muri, più ingressi regolari di migranti, le diversità sono un valore»), ai rilievi sulla legge sulla concorrenza (dicembre 2023, avvertiva sui «profili di contrasto con il diritto europeo») la destra ha esibito una cauta indifferenza agli appelli del capo dello stato.
Nel luglio 2023, ancora nel discorso del Ventaglio, Mattarella aveva lanciato un monito discretamente esplicito sul futuro varo della Commissione d’inchiesta sul Covid («non esiste un contropotere giudiziario del parlamento, usato parallelamente o, peggio, in conflitto con l’azione della magistratura»); la maggioranza è andata avanti, e due giorni fa la Commissione è stata promulgata.
L’accelerata in commissione
Al fondo, ormai sempre più evidente, c’è l’insofferenza per la figura del garante della Costituzione. Che infatti la maggioranza procede a smontare. Mercoledì la Commissione Affari costituzionali del Senato ha ingranato la quarta nell’esame dell’articolo 1 della riforma costituzionale per l’introduzione del premierato. L’articolo abolisce la nomina dei senatori a vita.
Dopo settimane in cui la commissione è rimasta inchiodata al tema del terzo mandato degli amministratori, nel giro di due ore sono stati bocciati tutti gli emendamenti dell’opposizione che si opponevano alla cancellazione di quel potere del presidente della Repubblica (in serata invece è stato accolto un emendamento di Italia viva che prevede che l’elezione del presidente della Repubblica possa avvenire con la maggioranza assoluta dopo il sesto scrutinio, e non il terzo come fin qui).
Le opposizioni sono insorte perché dalla maggioranza, «impermeabile a qualsiasi ragione delle opposizioni» secondo il capogruppo Pd in commissione Andrea Giorgis, non sono arrivati neanche interventi di merito.
La destra a sua volta ha lamentato l’ostruzionismo, che le opposizioni minacciano ma per ora non mettono in pratica. Lo scontro è ormai apertamente sul ruolo Colle.
«Gli emendamenti vogliono solo difendere la nostra architettura istituzionale e democratica e soprattutto tutelare le prerogative del Capo dello Stato», ha spiegato il presidente dei senatori Pd, Francesco Boccia. Ma la destra, piccone in mano, nega di voler ridimensionare il ruolo del presidente, anche mentre lo fa.
«Oggi la maggioranza comincia a ridimensionare i poteri del presidente della Repubblica, sottraendogli la prerogativa di nominare i senatori a vita, sorda a qualunque richiesta delle opposizioni di riequilibrare i poteri del premier cominciando a discutere, per esempio, di quorum parlamentari di approvazione, a tutela delle opposizioni», denuncia la senatrice del Pd, Valeria Valente.
Nel pomeriggio in commissione si è ristabilito uno straccio di dialogo. Ma l’intento è chiaro secondo Peppe De Cristoforo (Avs): il premierato «va approvato il prima possibile: questo è il diktat di palazzo Chigi a Fratelli d’Italia». In pratica alla fine giornata della giornata di mercoledì un mattoncino del palazzo del Quirinale ha già cominciato a sgretolarsi.
© Riproduzione riservata