- Al referendum sulla nuova Costituzione tenutosi domenica scorsa in Cile ampia vittoria dell’opzione “rechazo”.
- L’esito della votazione rappresenta una severa battuta d’arresto per il governo Boric
- Il vecchio establishment politico ha giocato sul fattore “tempo” per condizionare l’esito del processo
«Penso che il colpo di Stato durerà cento anni. Solo dopo che saranno trascorsi cento anni il Cile comincerà a riequilibrarsi». L’esito del plebiscito di domenica mi ha richiamato alla mente queste amare parole di Patricio Guzmán, rilasciate in un’intervista del 2013.
A proposito del quarantennale del golpe, il noto cineasta cileno esprimeva, infatti, in questo modo il suo scetticismo in merito alla possibilità, nel medio periodo, di superare le eredità autoritarie. Quasi dieci anni fa i dati macroeconomici del Cile erano molto positivi e il paese era considerato uno dei più stabili della regione latinoamericana sul piano politico e sociale.
Vero è che persistevano, come oggi del resto, altissime disuguaglianze economico-sociali e la stragrande maggioranza della popolazione non aveva accesso – perché privatizzati – a servizi essenziali come istruzione, sanità, pensioni, ecc. Il benessere era prerogativa di una ristrettissima élite.
Tuttavia, quasi nessuno metteva in discussione la struttura della società e il sistema politico-istituzionale, proprio in virtù del “miracolo” economico che aveva interessato il paese negli anni del ritorno alla democrazia.
Così, la maggior parte dei cileni e delle cilene riteneva immodificabile lo status quo, come se vivere ai margini e accontentarsi, tutt’al più, dell’illusione di una prosperità diffusa fosse un dato naturale e incontrovertibile.
Le parole di Guzmán suonarono un po’ come l’esagerazione di un intellettuale, una previsione che apparve per certi versi smentita dalla rivolta sociale dell’ottobre del 2019, che ha aperto il processo conclusosi domenica (e al quale ha dedicato peraltro il suo ultimo documentario intitolato Mi país imaginario), e, poi, soprattutto dalle elezioni presidenziali che hanno sancito la vittoria di Gabriel Boric.
Sino a pochi mesi fa c’era la diffusa convinzione della vittoria dell’opzione favorevole al nuovo testo costituzionale (“apruebo”). Poi il vento è cambiato e nelle ultime settimane tutti i sondaggi davano in vantaggio il “rechazo” (rifiuto). Tuttavia, non con una percentuale così netta come quella che si è manifestata domenica: quasi il 62 per cento di votanti, su una platea di più di 13 milioni di partecipanti – ovvero, oltre l’85 per cento degli aventi diritto – ha, infatti, rigettato la nuova Costituzione, a fronte del 38 per cento di chi ha votato a favore
Affluenza tra le più alte mai registratasi nella storia cilena, quindi, sebbene sia da rapportare all’aumento della popolazione negli ultimi decenni e, soprattutto, al carattere obbligatorio della votazione.
Troppo radicale?
Le ragioni di una tale inversione di tendenza sono numerose e complesse. Innanzitutto, occorre segnalare che, dietro l’esito del voto di domenica, non vi è una preferenza della Costituzione del 1980 da parte della popolazione; al massimo si cela il rifiuto, da parte di una parte consistente dei cileni dei presunti “eccessi” della Carta elaborata dall’Assemblea costituente, all’interno della quale, è bene ricordarlo, i partiti tradizionali erano poco rappresentati.
È indiscutibile, infatti, che il testo sottoposto al voto qualche giorno fa presentasse non indifferenti spinte “radicali”, riconoscendo, ad esempio, numerosi diritti sociali, a partire da quelli delle donne e dei popoli indigeni.
Caratteristiche che sono state strumentalizzate ad arte dai media (nella stragrande maggioranza dei casi controllati dai partiti di centro-destra o orientati verso questo segmento dello spettro politico), che hanno portato avanti in questi mesi una sistematica campagna di disinformazione, che ha incluso il ricorso a vere e proprie fake news, come quella relativa alla fine della proprietà privata sancita dalla nuova Carta.
La sinistra, in Cile come altrove, non ha trovato ancora una strategia per far fronte all’uso imponente e senza scrupoli dei social network e delle false notizie da parte delle destre. E in questo caso tale debolezza è emersa in maniera lampante.
Un altro aspetto da considerare è, poi, l’estrema complessità, se vogliamo farraginosità della (lunghissima) nuova Costituzione, composta di 388 articoli, che ne ha reso difficile la comprensione per una fetta importante della popolazione.
In ciò è emersa anche tutta l’inesperienza della nuova generazione di politici che ha portato Boric alla presidenza, caratterizzata da grande volontà di cambiamento e straordinaria passione civica, ma, forse, anche poco pragmatismo.
La rivoluzione non è un pranzo di gala, disse qualcuno, e sicuramente rappresenta un processo difficile da realizzare per tappe successive, distanti fra loro, peraltro in maniera concertata con l’avversario politico.
Dopo le proteste del 2019
Fu con le rivolte del 2019 che ampi settori della società si guadagnarono il diritto ad una nuova legge fondamentale, per chiudere con le tante eredità della dittatura. Da allora sono passati quasi tre anni, sui quali pesa pure l’estrema stanchezza derivante dalla crisi pandemica.
Questo stato di cose ha probabilmente favorito la scelta, da parte di una fetta importante di popolazione, di fronte ad una proposta di rottura, di optare per la conservazione.
Il vecchio (ed esperto) establishment politico (di centro-sinistra e di centro-destra) ha giocato proprio su questo fattore “tempo”, sulla lentezza del processo che avrebbe condotto all’elaborazione di una nuova carta e sull’istituto del plebiscito, sfruttandolo sapientemente e, adesso possiamo dirlo, fin dall’inizio (cioè dall’approvazione del patto parlamentare del novembre 2019 con il leader di destra Piñera presidente sulla convocazione di una assemblea costituente), per condizionare l’esito del processo.
Il risultato di domenica rappresenta sicuramente una battuta d’arresto per quello che sino a ieri era considerato l’astro nascente della sinistra latinoamericana e uno dei nuovi punti di riferimento del progressismo globale e, probabilmente, anche un monito per le sinistre “non tradizionali” e per i movimenti sociali che, in America Latina e altrove, si propongono trasformazioni strutturali.
Un monito di cui, per certi versi, esiste un precedente nella recente storia del Cile e che può fornire una indicazione su cosa potrebbe succedere nei prossimi mesi.
Le imponenti manifestazioni popolari nel corso degli anni Ottanta contro Pinochet furono messe fuori gioco da quelle forze, a sinistra come a destra, che dal 1990 in poi hanno accettato l’impianto neoliberista imposto dalla dittatura.
Come allora, il rischio di un azzeramento delle tante domande di cambiamento è molto concreto. E il governo in carica non potrà ignorare che la maggioranza della popolazione ha scelto di non scrivere il futuro, quantomeno non nei termini indicati dall’Assemblea costituente.
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