- Con Petro in Colombia e Boric in Cile è quasi completo il ritorno dei progressisti in tutti i principali paesi dell’America Latina. Resta l’incognita dello scontro Lula-Bolsonaro a ottobre in Brasile
- Un’ondata simile ci fu nel primo decennio del secolo, ma nonostante la congiuntura economica favorevole i successi politici sono stati assai modesti e la corruzione ha dilagato
- In quel decennio la sinistra più retrograda ha sperato invano di far funzionare due suggestioni del passato: una novecentesca come l'antiamericanismo e l’altra ottocentesca come il mito bolivariano
Ora che anche la casella colombiana si è tinta di rosso, e con la possibilità crescente che lo stesso accada ad ottobre in Brasile, la nuova ondata di sinistra in America Latina è una realtà.
Caso unico nel continente, la Colombia mancava all'appello da sempre: ha rimediato Gustavo Petro, il vincitore delle presidenziali di domenica scorsa, che è considerato il suo primo presidente di sinistra. Interessante notare come la Colombia sia l’unico paese dell'Occidente ad aver avuto attiva in permanenza sul suo territorio una guerriglia clandestina di ispirazione marxista per oltre 70 anni.
Oggi che quel confronto militare è stato in gran parte disattivato, grazie agli accordi di pace del 2017, è venuto meno anche il fattore di esclusione e di paura nei confronti delle istanze più progressiste. Riassumendo, dunque, quasi tutti i principali paesi del continente, dal Messico all'Argentina, sono oggi governati da presidenti di sinistra.
Manca il Brasile
Legittimamente eletti oppure no, come è il caso di Cuba, Venezuela e Nicaragua, dove ci sono una dittatura interminabile e due regimi autoritari che si sostengono grazie a brogli e violazioni dei diritti umani. Manca ovviamente il Brasile, ancora per qualche mese nelle mani dell'ultradestra di Jair Bolsonaro. A ottobre, l'ex capitano tenterà la rielezione, ma i sondaggi mostrano il forte vantaggio di Luiz Inácio Lula da Silva. C’è l'ipotesi di un suo clamoroso ritorno, dopo i due mandati tra il 2003 e il 2010.
La vittoria di Lula, vent’anni dopo la prima, sarebbe il sigillo definitivo sulla svolta e un ponte simbolico tra i giorni nostri e il primo decennio del secolo, quando il continente latinoamericano passò attraverso un'ondata simile, suscitando forti speranze di cambiamento. Nel giro di pochi anni, dopo lo scoccare del nuovo millennio, la sinistra conquista gran parte delle presidenze e c’è una raffica di “prime volte”.
Lula il primo ex operaio al potere, Evo Morales in Bolivia il primo indio, così come Alejandro Toledo in Perù; poi la novità di tre donne (Michelle Bachelet in Cile, Cristina Kirchner in Argentina, Dilma Rousseff in Brasile). In Messico ha termine la quasi dittatura del Pri, un partito che aveva governato per 80 anni filati. I fantastici anni Duemila della sinistra latam hanno però un personaggio carismatico sopra gli altri, l’ex colonnello dei parà Hugo Chávez, che fa diventare il suo Venezuela l’icona del nuovo terzomondismo in Europa e negli Stati Uniti.
Innescando sulla suggestione del “socialismo del XXI secolo” una produzione entusiasta di articoli, libri, documentari e blog. Questi ultimi oggi sono in gran parte spariti dalla Rete. Mentre gli effetti della catastrofe umanitaria provocata dal chavismo, purtroppo, sono reali e vivi sulla pelle delle sue vittime. Anche stavolta sarà bene guardarsi dalle generalizzazioni e attenersi ai fatti.
Le oscillazioni del pendolo tra destra e sinistra possono essere una coincidenza geografica piuttosto che un effetto contagio o, ancor meno, uno spirito del tempo. Metà del continente sudamericano è in realtà un continente a sé, il Brasile, che ha limitate affinità con i suoi vicini.
I paesi restanti, uniti dalla lingua spagnola, sono in perenne rivalità tra loro. Tra Colombia e Venezuela, per esempio, non si può nemmeno transitare in automobile da anni. Niente di terribile, nessuna guerra fratricida per fortuna infiamma queste terre da molto tempo, ma da qui a pensare a un destino comune ce ne passa. Prendiamo i risultati dell’ondata rossa degli anni Duemila, quella precedente all’attuale.
Dal punto di vista economico e sociale è stato un periodo positivo - e vedremo in seguito perché - mentre sul fronte politico i risultati sono stati praticamente nulli. Diviso o unito che sia il subcontinente, la sua rilevanza geopolitica sul resto del mondo resta minima.
L’irrilevanza del Mercosur
L’unica organizzazione con un minimo di sostanza, il Mercosur, ha perso qualunque rilevanza. Ciascun paese ha continuato con una propria politica commerciale rispetto al resto del mondo, più o meno aperta. Una serie di iniziative di “integrazione” volute da Chávez, e seguite da alcuni dei suoi alleati, non hanno lasciato tracce. Negli anni della “bonanza” petrolifera sono servite a tenere attaccate alle mammelle di Caracas alcuni paesi amici, primo tra tutti Cuba, foraggiata con i barili venezuelani per un decennio. Crollato il greggio e soprattutto l'economia chavista tutto si è squagliato.
In quel decennio la sinistra più retrograda, manipolata soprattutto dalla propaganda chavista, ha sperato di far funzionare due suggestioni del passato: una novecentesca come l’antiamericanismo sempre e comunque, e una addirittura ottocentesca, come il mito bolivariano e della Patria Grande, il destino comune dell'America ispanica.
Con queste due frottole, più il petrolio, il Venezuela ha tentato di porsi alla guida del resto dei governi di sinistra. I quali per loro fortuna non l'hanno seguito. Nemmeno la Bolivia e l'Ecuador, guidati dai fedeli alleati Evo Morales e Rafael Correa, ci sono cascati, salvando così le rispettive popolazioni dalla catastrofe delle scelte di Caracas.
I rapporti con gli Usa
Talmente vacua e superata è l’idea che tutti i mali vengano da Washington, come ai tempi di Kissinger e Pinochet, che degli schemi precedenti non è rimasta traccia. Lula ha avuto rapporti eccellenti con Bush figlio e Obama, mentre oggi l’ossequioso Bolsonaro è tenuto a dieci metri di distanza da Biden.
Tra Donald Trump e il messicano Lòpez Obrador (il quale si considera di sinistra radicale) c'è stato quasi un idillio. I paesi dell'area del Pacifico (Cile, Colombia, Perù) hanno accordi di libero scambio con gli Stati Uniti, le migliori performance economiche, e nulla cambia lungo le alternanze dei presidenti al potere.
Quella generazione di governanti non ha dato nemmeno prove di dirittura morale. Il Brasile di Lula ha visto i due peggiori fenomeni di corruzione della sua storia, il Mensalão e poi lo scandalo Petrobras, entrambi messi in piedi dal Partito dei lavoratori; in Perù sono finiti sotto inchiesta cinque presidenti di fila, l’ecuadoriano Correa è ancora in esilio in Belgio, mentre in Argentina i pm cercano ancora di tirare le fila dell'assurdo arricchimento della famiglia Kirchner. I papaveri del regime venezuelano sono addirittura in testa alla lista dei ricercati Interpol per narcotraffico.
A leggere i piani di governo di Gustavo Petro e più ancora di Gabriel Boric, il 36enne fresco presidente del Cile, il peso della differenza tra generazioni si sente, e si spera possa contaminare anche il resto delle sinistre del continente. Si parla finalmente di transizione ecologica, di diritti civili, con scuola e salute ai primi posti, riforme economiche, partecipazione democratica.
Vent’anni fa invece Lula, Chávez e Kirchner si ritrovarono seduti sul più grande boom di commodities della storia, non si parlava che di petrolio, gas, rame, soia, strade e infrastrutture. La loro fortuna fu che per una congiuntura favorevole ebbero risorse per finanziare programmi sociali e ridurre la miseria. In alcuni paesi fu fatto con lungimiranza, in altri con il peggiore dei populismi, del quale si sentono ancora oggi le conseguenze.
Il mito di allora, il Venezuela, è un paese fallito dal quale sono scappati in cinque milioni e la miseria attinge il 90 per cento della popolazione. Non è un caso che la sinistra del nostro decennio, per vincere nelle urne, deve far finta di non conoscere Maduro e la buonanima di Chávez.
© Riproduzione riservata