In questi giorni si commemorano le stragi compiute ottant’anni fa dai nazisti sui monti dell’Appennino settentrionale. Fu infatti nei giorni tra fine settembre e inizio ottobre del 1944 che le truppe tedesche si macchiarono di orrendi crimini, infierendo su popolazioni inermi nei villaggi dell’appennino bolognese.

Stragi piccole e grandi nelle quali perirono per lo più donne, anziani e bambini, crimini rimasti impuniti che sono anche in qualche modo usciti dalla narrazione ufficiale prevalente che ricorda solo il più enorme di essi – quello nei borghi attorno a Monte Sole – nel quale le vittime furono centinaia, ma che lasciarono penose scie di sangue e memorie amare nei luoghi colpiti.

L’appennino tosco-emiliano, fino a quei giorni tristi, aveva visto lo scontro degli eserciti alleati e nazista lungo la Linea Gotica, su alcuni passi, come quello della Futa e della Raticosa, e più a est, sul versante adriatico.

I bombardamenti alleati avevano infierito sui paesi lungo le linee ferroviarie porrettana e “direttissima” (la Bologna-Firenze), per tagliare le gambe ai rifornimenti tedeschi. Le retrovie, i paesi e le località al di fuori di queste arene erano rimaste presidiate dai tedeschi, spesso colpiti da azioni partigiane, lasciando però relativamente fuori dal conflitto la popolazione. L’azione di repressione e rappresaglia dei nazisti si era concentrata, nei mesi estivi, in Toscana e Umbria, e solo a settembre si sposterà più a nord.

Dopo lo sfondamento della Linea Gotica, i tedeschi si riposizionarono più a nord, lungo un fronte che rimarrà sostanzialmente fermo fino alla ripresa dell’offensiva alleata nel febbraio del 1945. Ed è a ridosso di questo fronte che, tra settembre e ottobre, si verificarono quelle stragi che rivelarono il carattere feroce dell’occupazione nazista, per nulla interessata a conquistarsi i favori della popolazione, mentre le brigate partigiane avevano la meglio nel liberare villaggi e paesi da fascisti in fuga e nazisti in ritirata.

Il massacro di Ca’ Berna

A Ca’ Berna, un gruppo di case sotto al Corno alle Scale, in risposta ad alcuni colpi esplosi a monte contro un plotone tedesco di passaggio, il 27 settembre 27 civili vennero trucidati dai nazisti nelle loro case, uccisi uno per uno con un colpo alla testa o mitragliati sull’aia di casa.

Il folto plotone discese il monte, prendendo in ostaggio la popolazione del paese di Vidiciatico per una notte, portando con se dodici sventurati nella loro marcia verso il monte Belvedere, uccidendo lungo la strada, per arrivare al passo di Ronchidoso, in comune di Gaggio Montano, dove si scontrarono con un gruppo di partigiani. E lì, i tedeschi compirono una nuova rappresaglia, trucidando, tra il 28 e il 29 settembre, ben 67 civili, per lo più sfollati da Bologna per sfuggire ai bombardamenti. Nei giorni successivi, nelle case intorno, mieterono altre vittime.

Come a Molinaccio, un gruppo di case lungo il Reno nello stesso comune di Gaggio, più a valle, dove il 2 ottobre uccisero altre 17 persone inermi e innocenti.

Tutti questi crimini, rimasti nella memoria delle popolazioni ferite, non hanno mai avuto responsabili riconosciuti, che nemmeno gli studiosi sono riusciti a identificare con certezza. Come ogni anno, però, anche questa volta una corona d’alloro verrà depositata in ognuno di quei luoghi e in molti si ritroveranno a ricordare quegli orribili delitti, in quegli incontri di mite mestizia che ancora nulla hanno di retorico con le autorità locali e i parenti delle vittime.

Il tema, naturalmente, non è solo quello della memoria – e di come tenerla viva – ma anche della giustizia e della rielaborazione di quegli eventi. Perché noi ci sentiamo spesso dire che la memoria dovrebbe servirci a capire, affinché «non possa più succedere». E come noi ci confrontiamo con quella memoria, con i fatti e i loro responsabili, ha a che fare con la nostra capacità di andare oltre, di costruire sulle macerie. L’Europa, nell’idea originaria dei suoi fondatori, era anche questo: agire insieme, superare gli steccati nazionali e ideologici, per andare oltre. La ferocia nazista suscitò un odio che fu possibile superare solo perché fummo in grado di distinguere il tedesco dal nazista, il nostro concittadino dal fascista che ne fu complice. Grazie alla nostra civiltà.

I massacri sui monti dell’Appennino bolognese sono stati ricordati a Marzabotto alla presenza di Mattarella e del presidente tedesco Steinmeier. Centinaia di morti civili, caduti assieme alle decine di ragazzi che si armarono per resistere agli occupanti tedeschi e ai loro compatrioti usurpatori, i fascisti di Salò, che ne furono complici aguzzini.

Il «mai più»

Dopo quelle stragi siamo stati capaci di accogliere le spoglie dei vinti, superando l’orrore, per pietà, aderendo a quella promessa che invocava la fine di tutte le guerre, il «mai più». E abbiamo avuto fede che quella fascista sarebbe stata un’aberrazione che non si sarebbe più riproposta. Oggi, epigoni e illusori eredi di quel nefasto regime, “rivisitano” la storia e pretendono di sottacerne le atrocità.

Già Walter Benjamin aveva avvertito contro il progetto fascista di oblio, perché, al fine di imporsi, il dominio fascista deve liquefare retroattivamente la storia: «Anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere». Oggi, tristemente, ci accorgiamo che è ciò che sta accadendo.

Certo, dopo di allora, la guerra “totale” praticata dai nazisti – colpire tutti indiscriminatamente, soldati e civili, uomini e donne, per fare tabula rasa, per stanare i nemici – è divenuta la pratica di ogni guerra: dal Vietnam a Gaza si sterminano gli inermi per colpire i combattenti. Ma non è questo ciò che dovremmo avere imparato dalla storia, perché nulla può giustificare l’annientamento totale e non vi è nemico del quale possiamo concepire l’eliminazione in nome della civiltà.

C’è un luogo, al passo della Futa, ove ha sede il cimitero militare germanico, che ospita i resti di più di 30mila giovani soldati tedeschi mandati a combattere sulla Linea Gotica. Ogni estate la compagnia teatrale archiviozeta di Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti vi mette in scena una drammatizzazione, ove l’utilizzo di quei luoghi come scenografia di senso ha un chiaro valore simbolico. Le rappresentazioni di archiviozeta conducono gli spettatori tra i sepolcri di quei giovani che furono i nostri nemici, gli assassini dei nostri padri e delle nostre madri. E si può così toccare con mano l’apice di un dramma di proporzioni storiche, e il suo risultato.

Noi, che oggi ci sforziamo di tenere viva la memoria di quegli eventi orrendi ricordati sopra, non possiamo non chinarci, in un gesto di pietà, e guardare quelle grigie tombe. Per accettare quello che è stato un atto di grande civiltà: l’aver consentito che anche le spoglie dei nemici venissero deposte e lì conservate. Quale gesto di più alta civiltà sarebbe possibile?

Questa è la civiltà in cui ci riconosciamo, non altro, non una improbabile “civiltà occidentale” che ci farebbe ergere sopra il resto del mondo davanti alla storia. Noi occidentali – tedeschi, italiani, europei tutti – siamo stati capaci dei peggiori crimini che la storia possa annoverare. Abbiamo conquistato e dominato territori di estensione ben superiori alle nostre modeste “patrie”, soggiogandone le popolazioni, estirpandole, eliminandole, in America del Nord e del Sud, in Africa, in Asia. Per diventare i padroni del mondo, quasi nella sua interezza.

Non è la “civiltà occidentale” di cui dobbiamo andare fieri e non possiamo accettare che Netanyahu giustifichi lo sterminio di Gaza in sua difesa – quella civiltà nel cui seno maturò il delirio nazista, la supremazia razzista e colonialista – ma la profonda civiltà umana che siamo stati capaci di far crescere in noi. Quella di Antigone. È questa la civiltà che dobbiamo preservare.

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