Dubito che finirà come nell’aprile scorso, con uno scambio di schermaglie reciproche a somma zero. I segni che il quadrante bellico stesse cambiando si sono susseguiti in tutto questo 2024, in cui l’intelligence israeliana si è riscattata con una serie di attacchi mirati, che l’accelerazione di queste ultime settimane ha sempre più configurato come una strategia di guerra.

Non avrebbe molto senso aver indebolito il fronte iraniano, con attacchi decisivi a Hezbollah, Houti e in Siria per fermarsi proprio ora, quando appare come un pugile barcollante in attesa del colpo del ko. Davvero difficile, però, capire come possa configurarsi la risposta israeliana al lancio di missili partito ieri sera da Teheran, che, per gioco del destino, ha causato come unica vittima un cittadino palestinese della West Bank colpito da un frammento di un razzo colpito dall’Iron Dome, che ancora una volta ha spostato un po’ più in là il limite della propria saturazione.

Una risposta speculare da parte di Tel Aviv rischierebbe di essere controproducente perché, in assenza di scudi protettivi, causerebbe un immenso numero di vittime civili, gettando ulteriore discredito sullo Stato ebraico in un conflitto in cui pesa molto la componente ideologica, come si nota dalle retoriche messe in campo, in cui ognuno accusa l’altro di essere l’Hitler di turno.

E sarà interessante vedere se nell’opinione pubblica occidentale prevarrà l’atavico sentimento antisionista, o l’avversione, alimentata da pulsioni islamofobe (vedere lo scambio in ebraico via X ieri fra nientemeno che l’ayatollah Khamenei e il fascistoide anti-islamico Geert Wilders), nei confronti dell’immagine del feroce Saladino che ha di mira l’Occidente tutto.

L’operazione via terra pare essere esclusa in partenza: Israele non ha nemmeno i numeri potenziali per poter occupare parte del territorio iraniano, oltre il fatto che dovrebbe attraversare km di territorio ostile. Ormai abbiamo visto davvero di tutto, ma questo scenario non si riesce nemmeno a capire come immaginarlo. Resta, ma siamo sempre nell’ambito della speculazione, l’ipotesi manovra a tenaglia di cui già scritto nei giorni scorsi.

L’intelligence israeliana ha dimostrato una tale capacità di penetrazione del territorio altrui da far pensare a un coordinamento con le opposizioni interne. Inutile sottolineare quanto il popolo iraniano, che finora più di qualche piccola manifestazione in giro per il mondo o qualche ciocca di capelli tagliata su Instagram non è riuscito ad ottenere in termini di supporto, avrebbe bisogno di un aiuto militare esterno per liberarsi di un regime tra i più sanguinari al mondo.

Si prefigurerebbe, così, un attacco coordinato con l’Idf che colpirebbe dei siti strategici iraniani, favorendo qualche forma di insurrezione interna. Ma, anche se questo piano a dir poco ambizioso andasse in porto, resterebbe l’incognita del dopo.

Il quadro, inutile negarlo, sarebbe nefasto per i palestinesi, che rischierebbero di essere risucchiati dalla storia, sul cui palcoscenico si sono con fatica affacciati proprio grazie al conflitto con Israele. È cosa nota che si inizi a parlare di conflitto israelo-palestinese solo dopo il ’67, mentre prima si utilizzava l’espressione assai più generica di conflitto arabo-israeliano.

In questo Medio Oriente che nascerebbe con la benedizione di sauditi, americani a tanti altri attori, si ritroverebbero da un lato (Gaza) a diventare una provincia saudita, dall’altro (Cisgiordania) di fatto annessi da Israele. Magari con qualche forma di autonomia territoriale già prefigurata dalle parole di questi mesi e anni di Bezalel Smotrich, il vero rappresentante delle colonie sioniste-religiose. In entrambi i casi, spogliati di quell’orizzonte nazionale tanto agognato.

Ma, c’è un però su cui si divide il fronte interno israeliano a tutti i livelli, sociale e politico. Qual è lo scopo strategico dello Stato ebraico a partire dal ’48? Per alcuni, conseguire la sua naturale espansione geopolitica realizzando il progetto del Grande Israele; per altri giungere alla legittimazione della propria presenza in Medio Oriente.

La prima ipotesi, anche ammettendo che in questa fase si limitasse alla West Bank, appare come uno schiaffo in faccia ai vicini con cui si vorrebbe costruire una convivenza duratura, il secondo vorrebbe dire affrontare un conflitto interno che metta ai margini la componente sionista-religiosa. Roba da guerra civile, per chi ricorda i pigiami di Auschwitz indossati dai coloni durante il ritiro da Gaza del 2005. Chissà che l’ingresso al governo di Gideon Sa’ar prefiguri qualcosa.

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