Ho reagito con una certa incredulità nell’assistere alla celebrazione del feeling tra la premier Giorgia Meloni e i vertici Cisl, tra il governo più di destra della storia della Repubblica e il sindacato che fu di Giulio Pastore e di Pierre Carniti.

Non credo che a darne ragione basti l’evocazione del valore dell’autonomia e dello spirito negoziale che qualificano la cultura e la tradizione di quel sindacato. E che semmai suggerirebbero una qualche cautelosa distanza.

Già sulla stretta materia che attiene al lavoro e alla questione sociale non mi pare che il governo meriti un plauso tanto ostentato. Solo qualche esempio: la rimozione della questione dei bassi salari e del lavoro povero, la precarietà dei contratti, la diffusione della povertà, la sanità pubblica al collasso, l’assenza di una politica industriale.

La politica fiscale

Il giudizio si fa più severo se si considera la politica fiscale dell’esecutivo. Se c’è un segno che la contraddistingue è il disincentivo alla fedeltà fiscale, la violazione del principio costituzionale della progressività delle aliquote, la clamorosa disparità di trattamento tra lavoro autonomo e lavoro dipendente, l’occhio di riguardo per gli evasori, il profluvio di sanatorie e condoni.

Un governo nel suo complesso compiacente con chi si sottrae al dovere fiscale – attestato anche dalle voci dal sen fuggite sul «pizzo di stato» – e che annovera nel suo seno un vero e proprio “partito degli evasori”, che programmaticamente se li coltiva come la sua constituency. Alludo ovviamente alla Lega.

Ma un sindacato dotato di visione non può ignorare altri parametri. Oserei dire la Cisl più di altri. Intendo la concezione del rapporto tra società e stato. Per evocare una categoria che dovrebbe essere cara al sindacato bianco: il principio di sussidiarietà.

Ovvero la valorizzazione dei corpi intermedi, del pluralismo delle formazioni sociali e, dunque, l’apprezzamento per un metodo di governo che si nutra dell’ascolto e del dialogo con la ricca trama delle espressioni delle autonomie.

La “capocrazia”

L’opposto della mortificazione delle rappresentanze sociali e istituzionali. A cominciare dal parlamento. Ovvero il culto della disintermediazione tra leader e popolo e della “capocrazia” che descrive il modus operandi del governo Meloni e che, a suggello di esso, si propone di snaturare la nostra democrazia parlamentare con la riforma costituzionale del premierato assoluto.

Né credo che un sindacato moderno di ispirazione cristiana con le sue proiezioni europee possa mostrarsi compiacente verso le chiusure nazionalistiche ostili a ogni principio solidaristico e di cooperazione internazionale.

Ho trovato altresì sgradevole che Meloni abbia profittato della cassa di risonanza offertale dalla Cisl per ingaggiare una greve polemica con gli altri sindacati confederali nel suo intervento al congresso. Facendo leva su un argomento specioso e quasi offensivo per un sindacato: la colpevolizzazione del conflitto sociale.

L’unità sindacale

Sono note le divergenze tra i tre sindacati. Divergenze legittime, ma che, quand’anche motivate, dovrebbero essere vissute come un problema e non come un risultato da celebrare.

L’unità sindacale non è un dogma, i problemi che vi ostano non vanno esorcizzati. Ma neppure si dovrebbe compiacersene, quasi farne una ragione identitaria. Ci si sarebbe attesi una qualche reazione a una premier da settimane alla macchia che si riaffaccia ribalda al congresso Cisl usandolo per fare propaganda politica e scavare solchi tra le diverse sigle sindacali.

Il rifiuto del collateralismo e la rivendicata autonomia dovrebbero valere anche nel rapporto con il governo. Così da inibire al deputato FdI presidente della commissione Lavoro, Walter Rizzetto, di definire la Cisl «il nostro sindacato». Sorprende che di queste elementari osservazioni non si abbia eco esterna, che esse non trovino posto nel confronto democratico interno alla Cisl. Solo si apprende di una burocratica staffetta al suo vertice.

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