Questa mobilitazione deve essere usata per cambiare davvero qualcosa. Ma l’educazione parta da evidenze scientifiche e in modo competente
La vicenda di Giulia Cecchettin ha avuto un effetto dirompente nella società italiana, soprattutto tra le generazioni più giovani. In molte e molti ci si è chiesti perché proprio questo femminicidio – ce ne sono più di cento ogni anno – abbia toccato corde più profonde dei molti altri di cui, con cadenza quasi quotidiana, abbiamo notizia.
Forse l’età dei due giovani coinvolti, forse l’intera dinamica della vicenda e la speranza che andasse diversamente, forse la presa di voce da parte della sorella di Giulia, Elena, e la sua chiamata a scendere in piazza e fare rumore.
Sta di fatto che questo evento ha suscitato grandissima attenzione sui vari media, generando un enorme e variegato flusso di commenti e opinioni, da coloro che incitano alla vendetta sul “mostro” a chi sostiene che in fondo cento femminicidi all’anno non siano un dato così preoccupante. Ma uno dei temi più ricorrenti, risuonato anche nelle manifestazioni di piazza, è stato quello relativo alla necessità di lavorare sull’educazione.
È questo un argomento a noi particolarmente caro: da molto tempo siamo infatti impegnate su questo fronte, nella consapevolezza – proveniente da una pluriennale attività di studio e ricerca – che la violenza è un fenomeno complesso, con profonde radici culturali, che non può essere superato senza un lavoro capillare volto a decostruire e contrastare stereotipi e squilibri di genere diffusi e persistenti nella società, un lavoro che passa soprattutto attraverso i processi educativi.
Proprio dalle pagine di questo giornale, pochi mesi fa, avevamo non a caso chiesto ai partiti che si contendevano la scorsa elezione di considerare l’educazione alla parità una priorità.
La sfida dell’educazione
Un tema, quello dell’educazione alla parità di genere, rispetto al quale, tuttavia, si sono registrate negli ultimi anni forti resistenze da parte di varie forze politiche, preoccupate del rischio insito in tali iniziative di mettere in discussione ordini di genere tradizionali, basati su una chiara distinzione dei ruoli di donne e uomini e su una distribuzione di potere asimmetrica, quell’ordine che però è appunto terreno privilegiato di coltura della violenza di genere.
È in questa prospettiva che nei giorni scorsi abbiamo accolto volentieri l’invito a presentare alla Camera il volume Educare alla parità, curato assieme a Mauro Spicci, che è frutto della collaborazione di un anno con un ampio gruppo di esperte ed esperti afferenti a diverse discipline, dall’economia al diritto, dalla sociologia alla linguistica.
Esito di questo percorso sono stati un manuale e un corso di formazione rivolto alle scuole per supportare chi insegna, sia con approcci che con materiali che possano contribuire a creare una cultura di parità di genere nelle nostre scuole.
Come si evince anche dalla pluralità di competenze mobilitate nel progetto, questo richiede un impegno trasversale e continuativo lungo tutto il percorso scolastico, e rappresenta peraltro anche una straordinaria opportunità di innovazione didattica, utile anche per gestire altre articolazioni della diversità.
L’educazione rappresenta una delle misure essenziali contro la violenza di genere, assieme alla formazione di chi lavora nei servizi pubblici, dalle forze dell’ordine alla magistratura, fino a chi determina l’accesso ai servizi di supporto, di chi fa informazione – che a volte, anziché contestualizzare e spiegare avvalendosi di dati e competenze rilevanti, presenta le vicende legate alla violenza di genere come se si trattasse di rom-com – e del pubblico più in generale, come dimostra l’ampio corpo di ricerca che negli ultimi anni è stata condotta in questo campo e che ha mirato appunto a identificare interventi efficaci.
Usiamo questo momento di mobilitazione pubblica per cambiare davvero qualcosa. E facciamolo in modo competente. Disegnare interventi senza partire da evidenze scientifiche è problematico per ogni politica pubblica, ma in questo caso, dovendo rispondere a quella che è ormai diventata una intollerabile dimostrazione della nostra arretratezza culturale, è ancora più grave.
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