Da circa otto mesi, il Parlamento in seduta comune non riesce a eleggere il giudice costituzionale che ricopra il posto rimasto vacante nel collegio.

Nelle cinque votazioni avvenute sinora le Camere non hanno trovato un accordo sul nome, e così la Corte costituzionale sta lavorando a ranghi ridotti. Non è la prima volta che l’inerzia parlamentare porta a situazioni di stallo. Ma oggi, in presenza di riforme istituzionali che rafforzano l’esecutivo e il suo vertice a scapito di altri poteri, la mancata elezione assume una rilevanza forse maggiore rispetto al passato, come proveremo a spiegare.

I meccanismi di elezione

I quindici giudici che compongono la Corte costituzionale per un terzo sono nominati dal Capo dello Stato, per un terzo sono eletti dalle supreme magistrature e per il restante terzo sono eletti dal Parlamento in seduta comune (art. 135 della Costituzione).

La legge (n. 2/1967) prevede che, nel caso di un posto vacante, «la sostituzione avviene entro un mese dalla vacanza stessa». Si tratta di un «inderogabile dovere costituzionale» che attiene alla funzionalità di un essenziale organo di garanzia, come disse il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un comunicato del 3 ottobre 2008, dopo che per 18 mesi il Parlamento non era riuscito a eleggere il giudice mancante.

L’elezione richiede «la maggioranza dei due terzi dei componenti» delle due Camere in seduta comune per i primi tre scrutini, ridotta ai «tre quinti» a partire dal quarto. Tali quorum, rendendo necessario che anche una parte dell'opposizione concordi circa il nome del giudice, attenuano la possibilità che quest'ultimo sia espressione della maggioranza di turno. Il fine è quello di limitare la politicizzazione dell'elezione, a garanzia della terzietà e dell'imparzialità della Corte.

L’obbligo costituzionale e la politica

Il Parlamento in seduta comune ha il dovere di provvedere tempestivamente all’elezione, nel rispetto del principio di leale collaborazione con la Corte costituzionale. Tale tempestività nell’adempimento di quest’obbligo costituzionale non può essere compromessa dalla difficoltà di trovare un accordo politico sui nomi da eleggere, impedendo la funzionalità della Corte nel suo plenum.

La Consulta deve poter disporre delle più ampie competenze ed esperienze tecniche, quindi del pluralismo che solo la sua composizione completa garantisce. La regola secondo cui la Corte può comunque operare «con l’intervento di almeno undici giudici» su quindici (legge n. 87/1953) è volta ad assicurare la legittimità delle sue decisioni anche in caso di mancanza temporanea di alcuni membri, non a supplire al colpevole disinteresse del Parlamento.

Il rischio di un colpo di mano

Si potrebbe ritenere che sia interesse comune di maggioranza e opposizione posticipare l’elezione del nuovo giudice almeno fino al 16 dicembre 2024, quando scadranno i mandati di altri tre giudici, anch’essi di elezione parlamentare. Di fronte a diversi posti vacanti, è più agevole trovare un accordo e, quindi, raggiungere il quorum previsto, nella logica spartitoria che connota la politica, ma che è mortificante per l’essenza stessa della Corte.

Tuttavia, a dicembre - tra la sessione di bilancio e le festività natalizie - la soluzione potrebbe essere peggiore rispetto a quell’opaca spartizione. A fine anno resteranno undici giudici costituzionali su quindici: l’assenza di uno di essi potrebbe bloccare il funzionamento dell’intero organo.

Allora la maggioranza potrebbe tentare un atto di forza riguardo ai nomi da eleggere, provando a imporre quelli a sé più graditi. Ed è possibile che la minoranza, per senso di responsabilità, cioè per non lasciare la Corte esposta al rischio di non poter operare, ceda alle pressioni.

Ciò anche al fine di evitare, come avvenuto per elezioni passate, il susseguirsi di appelli da parte del Quirinale, dei Presidenti di Camera e Senato, del Presidente della stessa Consulta – vanno ricordati anche gli scioperi della fame e della sete di Marco Pannella - per addivenire alla scelta dei giudici mancanti.

Le riforme istituzionali in atto mostrano per più profili il fastidio dell'attuale dirigente verso adeguati “contrappesi”, a fronte dei propri “pesi”. Le dinamiche sottese all'elezione dei giudici della Corte potrebbero attestarlo ancora una volta. Restiamo in attesa di vedere cosa accadrà. Ma possiamo sin d’ora affermare che l’architettura istituzionale, solidamente espressa dalla Costituzione, appare nei fatti sempre più traballante, nell’indifferenza pressoché diffusa.

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