- A fronte di una ripresa dell’inflazione che quasi tutti ritengono temporanea, alcuni chiedono a gran voce politiche monetarie più restrittive. In caso contrario, sostengono, si rischia che le aspettative inneschino una spirale prezzi-salari come quella degli anni Settanta
- Il parallelo con gli anni Settanta, tuttavia, è fuorviante. Sia per il tipo di shock che ha colpito le nostre economie, sia per le condizioni economiche e istituzionali. Oggi un aumento dei salari (che pure sarebbe benvenuto) è purtroppo improbabile.
- Una virata in senso restrittivo delle banche centrali aggraverebbe la tendenza di lungo periodo alla stagnazione secolare che, dormiente durante la pandemia, rimane il nemico per i prossimi anni
Il grande economista e premio Nobel Paul Samuelson una volta notò scherzosamente che i mercati azionari avevano previsto nove delle ultime cinque recessioni. Il pensiero corre a lui in questi giorni, quando economisti che per anni ci hanno instancabilmente messo in guardia contro il pericolo di un ritorno dell’inflazione che puntualmente non si verificava, si affrettano a chiedere alle banche centrali di reagire alla recente fiammata inflazionistica con una virata in senso restrittivo.
Si sente addirittura parlare di ritorno della stagflazione, la combinazione di prezzi galoppanti e stagnazione economica che negli anni Settanta fece seguito agli shock petroliferi e segnò la fine della stagione keynesiana del secondo Dopoguerra.
Al momento le banche centrali respingono gli appelli al mittente, assicurando che rimangono vigili, annunciando che a fronte di una ripresa più robusta del previsto si preparano a sollevare il piede dall’acceleratore (attenzione, non a frenare, solo a spingere meno di prima!) un po’ in anticipo rispetto a quanto originariamente pianificato, ma insistendo che gli aumenti recenti dei prezzi non richiedono di cambiare orientamento alla politica monetaria; anzi, esse continuano a sottolineare il rischio che una restrizione prematura soffochi nella culla l’ancora fragile ripresa dell’economia mondiale.
Inflazione temporanea
Sulle ragioni dell’inflazione recente c’è un consenso di massima: la brusca ripartenza dei consumi nelle economie avanzate ha cozzato contro un sistema produttivo ancora convalescente, con alcuni settori che funzionano a singhiozzo e catene del valore ancora disarticolate dopo la pandemia.
Non solo, la crisi ha anche avviato un processo di riallocazione (tra settori, tra paesi) dell’attività economica, di riorganizzazione del sistema produttivo, che necessariamente prenderà tempo. Insomma, domanda e offerta sono oggi disallineate in molti settori e l’emergere di colli di bottiglia ha inevitabilmente portato ad aumenti dei prezzi.
A questo si aggiunge la fiammata dei prezzi dell’energia che ha molte cause, alcune temporanee (la gestione delle scorte, soprattutto di gas) altre che sono sintomo di cambiamenti in atto, non tutti negativi: ad esempio, la Cina ha avviato lo smantellamento di una parte delle proprie centrali a carbone e quindi importa quantità massicce di gas naturale liquefatto (Gnl), creando penuria a livello mondiale (gli approvvigionamenti di Gnl ai paesi europei quest’estate si sono ridotti del 38 per cento rispetto al 2020). Anche in questo caso occorrerà attendere che domanda e offerta si riorganizzino perché le tensioni sui prezzi vengano meno.
Il rischio inesistente di spirali prezzi-salari
Se sulle ragioni dell’aumento dei prezzi e sul loro carattere temporaneo molti sono d’accordo, perché alcuni chiedono a gran voce che le banche centrali reagiscano alla fiammata inflazionistica con una restrizione monetaria?
L’argomento è che l’inazione potrebbe spingere i mercati a credere che le banche centrali siano pronte a lasciar filare l’inflazione; la timidezza nel reagire agli aumenti di questi mesi potrebbe indurre un cambiamento delle aspettative che a quel punto sarebbero stabilmente incorporate nel processo di formazione di prezzi e salari rendendo permanente un’inflazione che è nata temporanea.
La restrizione monetaria, insomma, dovrebbe servire per segnalare all’economia che le banche centrali sono serie nel combattere l’inflazione.
Si tratta di un argomento per molti versi discutibile.
Il riflesso pavloviano di associare l’aumento dei prezzi delle materie prime con l’inflazione degli anni Settanta non coglie le molte differenze con quel periodo. In primo luogo, gli shock petroliferi di allora costituirono uno shock permanente di natura molto differente dal disallineamento tra domanda e offerta causato dalla pandemia. Poi, e soprattutto, i meccanismi politici e istituzionali che allora portarono alla spirale tra prezzi e salari oggi non esistono più.
Anzi, la stagnazione dei salari è oggi un problema serissimo per le nostre economie in cui la distribuzione troppo diseguale tra capitale e lavoro è uno dei fattori che spiegano la tendenza alla cosiddetta stagnazione secolare, una cronica insufficienza di domanda che negli ultimi decenni ha depresso l’inflazione.
Non è un caso che molti banchieri centrali si siano espressi negli ultimi anni a favore di aumenti dei salari che consentano di riallinearli con gli aumenti della produttività sostenendo domanda aggregata e crescita. Insomma, a chi teme l’improbabile ripresa dell’inflazione salariale si è tentati di rispondere “ben venga”!
La risposta all’inflazione deve venire dalla politica industriale
Reagire ad un’inflazione dovuta a temporanei colli di bottiglia e aumenti dei costi con una restrizione monetaria che comprima la domanda aggregata sarebbe non solo poco giustificato, ma anche pericoloso.
Ridurre consumi e investimenti sarebbe poco efficace nel riallineare domanda e offerta a livello settoriale. A quel punto si che rischieremmo una nuova stagflazione, con prezzi che corrono e attività economica in caduta libera.
Non sono le politiche monetarie che occorre mobilitare oggi per far fronte all’aumento dei prezzi. Una parte di questo aumento è temporaneo (uno “starnuto” lo ha definito un’autorevole esponente della Bce), e andrebbe ignorato (magari attuando misure, anch’esse temporanee, di sostegno del potere d’acquisto).
Quanto ai colli di bottiglia generati dalla ricomposizione della struttura produttiva, essi non saranno fatti sparire aumentando i tassi di interesse, ma con politiche industriali appropriate, volte a facilitare la transizione verso nuovi modi di organizzare l’attività produttiva e verso un nuovo mix energetico.
Nonostante la pressione, anche mediatica, generata dall’inflazione di questi mesi, le banche centrali sono convinte che una volta chiusa la parentesi della pandemia le tendenze strutturali alla deflazione contro cui si battono a fatica da prima della crisi finanziaria globale torneranno a dominare.
Il mondo della sovrabbondanza di risparmi e dell’investimento stagnante non è dietro di noi. È su questa sfida che, a ragione, si concentrano; non su anacronistici rischi di spirali prezzi salari e improbabili canali delle aspettative.
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