Oggi molti uomini si pongono la necessità di un’iniziativa visibile maschile contro la cultura che è alla radice della violenza. Ma le posture maschili di condanna della violenza sono tra loro diverse
È trascorso più di un mese dal funerale di Giulia Cecchettin. In quell’occasione le parole del padre Gino e la presenza di migliaia di persone hanno segnato un cambiamento nella percezione pubblica della violenza maschile contro le donne. Nel frattempo, altre donne sono state uccise dal marito o dall’ex compagno, altre ferite gravemente, sfigurate, minacciate. L’emozione, la rabbia, l’indignazione che hanno attraversato il paese non hanno fermato, e sarebbe stato ingenuo aspettarselo, la violenza contro le donne, nemmeno per pochi giorni. L’indignazione è una risorsa importante, se non si limita all’emozione estemporanea e produce un’assunzione di responsabilità. La condanna urlata rischia, soprattutto, di allontanare da sé il problema, di ridurlo a una patologia estranea alla nostra realtà, da delegare alle forze dell’ordine: mettere in galera gli autori e, soddisfatti, tornare alla propria normalità. Più volte, in passato, l’indignazione per la violenza è stata strumentalizzata per alimentare politiche xenofobe e securitarie che nulla avevano a che fare con la libertà delle donne. E la narrazione mediatica ha alimentato l’immagine di donne deboli, “minori”, bisognose di protezione, oscurando la rivoluzione prodotta dalla libertà femminile e riproponendo un ruolo maschile di protezione, tutela e controllo.
Quando la denuncia della violenza mette in discussione “l’ordine di genere” che ne è alla radice si incontra meno accoglienza. Anzi, si scatenano, come avvenuto verso la famiglia Cecchettin, gli odiatori da tastiera, ma anche editorialisti e professionisti del linciaggio. La “vittima” o la sua famiglia devono esporre la propria sofferenza senza pretendere di avere un proprio punto di vista su ciò che ha provocato quella sofferenza: devono stare al loro posto senza contraddire il senso comune. Negli ultimi anni i luoghi comuni diffusi dai media mainstream e dalla comunicazione informale hanno alimentato la rappresentazione di un cambiamento ostile agli uomini, un femminismo che avrebbe “esagerato” in una furia ideologica e in conflittualità.
Le reazioni, soprattutto maschili, propongono tre paradossi: il primo è “il vittimismo dei dominanti”, la narrazione di uomini in crisi, depressi, discriminati o minacciati da un cambiamento ostile e pericoloso. Sono sempre più diffuse le espressioni sociali di uomini che si rappresentano come vittime. Populismi e nazionalismi fanno leva, come ciclicamente in passato, sulla frustrazione, sul rancore maschile, e sulla promessa di un riferimento identitario, revanscista ed escludente, un conformismo omologante come risorsa per salvare dall’angoscia generata da questo smarrimento.
Il secondo paradosso è la “trasgressione conformista”: quell’atteggiamento che ripropone battute misogine od omofobe, vecchie come il cucco, spacciandole per espressione di un coraggioso anticonformismo. La “rivolta contro la dittatura del politicamente corretto” in realtà ripropone soltanto l’arcaico dominio del politicamente indecente. Il terzo paradosso, forse quello oggi più insidioso, è quello che accompagna la condanna della violenza, frutto di ordine di genere gerarchico e oppressivo, proprio con la nostalgia per un ordine perduto. La vulgata da talk show propone quello che ripeteva una mia vecchia zia: “non ci sono più gli uomini di una volta”, quelli che sapevano virilmente dominarsi e rispettare le donne.
L’uccisione di Giulia Cecchettin da parte di Filippo Turetta e, poco prima, lo stupro di gruppo a Palermo e la storia di abusi e violenze a Caivano coinvolgono ragazzi giovanissimi di ambienti sociali diversissimi tra loro, e questo impedisce di ridurre la violenza patriarcale a espressione di situazioni di degrado e marginalità. La violenza maschile nelle relazioni intime e nelle relazioni sociali è un dato strutturale, ma si evolve nel tempo. Ma a volte un evento produce una frattura nelle narrazioni dominanti. L’uccisione di Giulia Cecchettin ha avuto questo effetto, e dovremmo capire come tenere aperta questa frattura. Per questo la presa di parola di Gino Cecchettin è preziosa: perché si sottrae al richiamo all’autorità paterna che dovrebbe riportare ordine in una società violenta e confusa. Chiede ai padri di essere “agenti di cambiamento”. Ma gli uomini possono esserlo?
Antropologia negativa
Se la violenza è frutto di una cultura radicata e di un sistema di relazioni di potere, la soluzione non può essere neutra né indolore. Oggi molti uomini si pongono la necessità di un’iniziativa visibile maschile contro la cultura che è alla radice della violenza. Ma le posture maschili di condanna della violenza sono tra loro diverse. Se la sessualità e il desiderio maschile sono per loro natura ferini, oppressivi e annichilenti, cosa fare? Coprire i corpi delle donne, preservarli con un burqa dallo sguardo? Affidarsi alla tradizionale capacità virile di autocontrollo? Sono prospettive apparentemente lontanissime, ma fondate su una comune “antropologia negativa” di un maschile scisso tra pulsione bestiale e dominio razionale del corpo. Forse è più utile provare a indagare il desiderio: è un dato naturale («la carne è carne») o è socialmente costruito, colonizzato, conformista e mimetico?
Riconoscerne la natura sociale apre un terreno di trasformazione. Come uomini, veniamo educati a un continuo esercizio di negazione della dipendenza, della relazionalità, del legame. Il ragazzo incitato ad “allontanarsi dalle gonne della madre per diventare un uomo”, l’ironia dei compagni di calcetto per chi, fidanzandosi o, peggio, sposandosi, ha rinunciato alla propria libertà, ma anche il tecnico, l’esperto, che afferma l’autorevolezza del proprio giudizio a partire dalla capacità di prescindere delle emozioni. Come se riconoscere che le relazioni sono fondative della nostra esistenza, che non siamo autosufficienti, fosse uno scacco insopportabile e non una consapevolezza necessaria.
Il rancore maschile verso un femminile rappresentato come opportunista e manipolatorio svela questa finzione. La frustrazione che porta molti uomini a uccidere e, non di rado, a fare violenza su sé stessi e sui figli per l’impossibilità di tollerare una separazione. La rimozione della vulnerabilità o la sua rappresentazione come minaccia, perdita, mancanza, si rivela un vicolo cieco; produce una spinta distruttiva e autodistruttiva.
L’accettazione del limite, il riconoscimento della dimensione relazionale della nostra esperienza umana, ci permette di uscire dalla solitudine alienata e incapace di relazione in cui la strategia fondata sul potere ci ha relegati. Per contrastare la violenza maschile contro le donne, insomma, serve un cambiamento profondo nel nostro modo di pensare le relazioni e noi stessi. Un cambiamento che non si può affidare all’intervento di presunti “esperti” che educhino ragazzi e ragazze nelle scuole. Per questo è importante la frattura che si è aperta e che ha portato uomini come il segretario della Cgil ad affermare che la trasformazione e il cambiamento «chiamano in causa noi uomini: dobbiamo mutare anche dal punto di vista culturale, perché dietro ai femminicidi ci sono gli uomini». Landini si chiede come costruire atti concreti e non occasionali per promuovere questo cambiamento.
Dovremmo lavorare per tenere aperta questa frattura che si è generata: dare visibilità e spazio alle esperienze di impegno maschile contro la violenza, ai ragazzi che scelgono percorsi di studio critici sui modelli di genere, agli uomini che nella propria vita cercano di essere padri differenti, agli uomini che hanno scoperto. Potremmo cominciare costruendo un appuntamento di confronto pubblico tra uomini. Uomini dell’informazione e della comunicazione, sindacalisti, scrittori, padri, figli, omosessuali ed eterosessuali, uomini impegnati nelle associazioni attive da tempo nel contrasto della violenza, o uomini che oggi cominciano a vedere la miseria che si cela nel potere e nel privilegio e vogliono essere “agenti di cambiamento”. Della società ma, per una volta, anche delle proprie vite.
© Riproduzione riservata