- Al summit annuale dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai l’Iran ha iniziato il percorso per diventare membro dell’organizzazione a guida cinese.
- C’è un nesso simbolico che lega la repressione violenta delle proteste in Iran e il lungo corteggiamento di Tehran a Pechino.
- Nella crescente polarizzazione globale la Cina gioca una parte ancora ambigua.
Mentre la notizia che Masha Amini, la ventiduenne arrestata dalla polizia morale iraniana per non aver indossato correttamente il velo, moriva in un ospedale di Tehran raggiungeva i social media in Iran e nel mondo, il presidente iraniano Ebrahim Raisi era a Samarcanda a firmare il memorandum che ha dato ufficialmente inizio al percorso che porterà la Repubblica islamica a diventare membro dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (conosciuta con l’acronimo inglese Sco).
Una sovrapposizione tanto casuale quanto simbolicamente forte in una fase storica in cui la faglia tra occidente e oriente sembra di nuovo allargarsi, seppur non senza ambiguità.
Nel solco tracciato da questa frattura va letto il progressivo spostamento verso est dell’Iran: un percorso ormai radicato nel tempo che vive di accelerazioni e frenature, risultato della naturale attrazione che la Cina, più che la Russia, esercita con sempre maggiore forza sui paesi del Golfo Persico.
Ma anche della necessità specifica del regime iraniano di trovare un sostegno economico e una dimensione di appartenenza internazionale e solidarietà di fronte alle sanzioni occidentali. L’ingresso dell’Iran nell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai avvicina una volta di più Tehran a Pechino.
Cos’è la Sco
Fondata nel 2001, la Sco riunisce sette membri – Cina, Russia, le quattro repubbliche centrasiatiche, India e Pakistan – e una moltitudine di stati divisi tra osservatori e partner in Asia e medio oriente.
A processo completato, l’Iran sarà l’ottavo membro. Governata tramite il meccanismo del consenso e dunque, almeno formalmente, acefala, l’organizzazione è stata descritta come la risposta cinese della Nato.
A ben guardare, tuttavia, il paragone stona. In oltre vent’anni di storia il ruolo della Sco è rimasto principalmente simbolico, come testimoniano gli scarsi risultati in termini di integrazione politica ed economica tra i membri.
Una vetrina, insomma, che la Cina, principale promotrice dell’organizzazione, usa per mostrare l’opportunità di un’ideale più che pratica alternativa all’integrazione di stampo occidentale, attirando l’interesse di un numero sempre maggiore di paesi.
L’Iran guarda a est
Il lungo e tribolato percorso che ha portato l’Iran a ottenere lo status di membro della Sco racconta di un paese che guarda a oriente per sfuggire all’isolamento internazionale e di un oriente a guida cinese circospetto e attendista.
Nel 2008 fu Mahmud Ahmadinejad, il presidente conservatore e populista che aveva avvicinato l’Iran alla Cina per resistere alle sanzioni occidentali, a fare richiesta ufficiale di avviare il percorso di ingresso di Tehran nell’organizzazione asiatica.
Il tentativo di Ahmadinejad rimase lettera morta, bloccato dallo scetticismo, soprattutto cinese, di accettare un membro che avrebbe dato alla Sco una connotazione marcatamente antioccidentale. Poi, un regolamento interno all’organizzazione, approvato nel 2010, sanciva il divieto di accettare membri sotto sanzioni delle Nazioni Unite, bloccando de iure le ambizioni iraniane.
Nel frattempo, India e Pakistan, che, come la Repubblica islamica, si erano sedute al tavolo dell’organizzazione come osservatori nel 2004, hanno ottenuto lo status di membri nel 2017.
L’Iran di Hassan Rouhani, il presidente riformista che nel 2015 firmò l’accordo sul nucleare (conosciuto con l’acronimo inglese Jcpoa), era più marcatamente proiettato verso occidente.
Infatti, la scelta di accettare importanti limitazioni e controlli esterni al programma nucleare avrebbe dovuto avere come contropartita il progressivo reintegro dell’Iran nell’economia mondiale, con uno sguardo particolare verso gli investimenti europei. Meno oriente e più occidente. Di conseguenza il corteggiamento alla Sco passava in secondo piano.
È a questo punto che due archi della storia, solo apparentemente scollegati, si sovrappongono.
A partire dalla campagna elettorale presidenziale, la futura amministrazione Trump è parsa avere almeno due obbiettivi chiave in politica estera poi effettivamente portati a termine: abbandonare l’accordo sul programma nucleare iraniano firmato da Barack Obama (in concerto con gli altri membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu e l’Unione europea) nel 2015 e il pugno duro commerciale con la Cina. Per Tehran lo shock è tremendo.
La “massima pressione” dell’amministrazione Trump isola nuovamente l’Iran che risponde su tre piani: venendo progressivamente meno alle limitazioni riguardo al proprio programma nucleare imposte dal Jcpoa, alzando il livello di tensione nel Golfo Persico e ritornando a cercare il sostegno politico ed economico della Cina.
Impegnata nella guerra dei dazi e con lo spettro sempre più incombente del ritorno della cosiddetta competizione tra grandi potenze, la Cina ha accettato la richiesta iraniana, continuando a importare petrolio da Tehran nonostante le sanzioni di Washington e firmando un importante accordo di cooperazione venticinquennale. Il via libera alla membership iraniana nell’organizzazione dopo le resistenze degli ultimi quindici anni suggerisce un cambio di passo non trascurabile: Pechino, oggi, è strategicamente più propensa a lasciare che la principale organizzazione internazionale a sua guida possa assumere quelle sfumature antioccidentali e antiamericane tenute fuori per anni lasciando chiusa la porta alla Repubblica islamica.
Una scelta simbolica
L’ascesa dell’Iran a membro della Sco è dunque carica di simboli e significati. L’establishment politico iraniano di stampo conservatore, che oggi esprime il presidente della Repubblica islamica, sembra trovarsi a proprio agio in una scelta di campo, quella di voler appartenere a supposto ordine cinese, che invece è visto con cinismo dagli ambienti più moderati.
È una faglia, questa, che si aggiunge alle tante contraddizioni che caratterizzano l’Iran a quasi mezzo secolo dalla rivoluzione del 1979.
Ed è qui che si legge un tratto d’unione tra la brutale repressione con cui il regime iraniano sta rispondendo alle proteste popolari per la morte di Masha Amini, che nel mondo occidentale genera scandalo e solidarietà verso gli iraniani che protestano, e quel principio di non ingerenza negli affari domestici che è la regola quasi auto-assolutoria che la Cina fissa al primo posto nelle relazioni con i paesi amici.
Difficilmente le linee di faglia della storia appaiono nette. Tuttavia, si intuiscono dei segni – primo fra tutti la polarizzazione globale di fronte all’invasione russa dell’Ucraina – che indicano una separazione che sembra farsi più evidente e difficile da ricucire.
All’orizzonte non si intravvede la divisione in due blocchi ben definiti che fu della Guerra fredda, dunque, ma una trama più complessa, in cui la Cina continua a mantenere una certa pilatesca ambiguità. L’ascesa di Tehran a membro della Sco è un punto cardine di questa trama.
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