- Il richiamo di Roberta De Monticelli ad occuparci del conflitto israelo-palestinese si rivolge ad Occidente, mondo arabo ed ebraico.
- Raccolgo l’invito alla riflessione per approfondire alcuni punti che mi paiono di interesse generale.
- Si ricordano sempre le risoluzioni ONU contro Israele, spesso confuse con una giustizia divina calata dall’alto, perché non ricordare anche la 181 che prescriveva il riconoscimento di due Stati e sempre disattesa dal mondo arabo? Se non partiamo da legittimazione reciproca e assunzione di responsabilità, non facciamo altro che mascherare da pace parole di guerra.
Vorrei ringraziare Roberta De Monticelli per richiamare l’attenzione sull’annoso conflitto israelo-palestinese, che da tempo ha perso centralità nel dibattito pubblico. Vorrei ringraziarla perché risveglia l’attenzione dell’Occidente, in altre faccende affaccendato da quando il Medio Oriente ha visto il crollo di interi Stati con capacità di destabilizzazione assai maggiore.
Poi, vorrei ringraziarla per richiamare l’attenzione del mondo arabo, che, da sempre, ha utilizzato il popolo palestinese solo in chiave propagandistica, negandogli ogni diritto nei propri territori.
Soprattutto, però, vorrei ringraziarla per risvegliare l’attenzione della coscienza ebraica, purtroppo da tempo assuefatta allo status quo, come se fosse possibile perpetrare all’infinito una condizione scandita da costanti attentati e lanci di missili da una parte e di privazione di elementari diritti come la libertà di movimento dall’altra.
Per non parlare degli scontri a fuoco, delle guerre, che provocano da decenni vittime da una parte e, soprattutto, dall’altra.
Vista anche la sproporzione fra le forze in campo e anche, mi sia permesso dirlo, la differente attenzione alle vite dei propri cittadini, da un lato difese con missili anti-missili che costano circa un milione di dollari l’uno, dall’altro spesso ammassati in obiettivi sensibili e usati come scudi umani per dissuadere gli attacchi avversari. Ci rammarichiamo, ma non ci scandalizziamo, la cultura di Davide contro Golia ben conosce le dinamiche di uno scontro impari.
Non volendo scadere in polemiche personali e, men che mai, monopolizzare lo spazio di un quotidiano per scontri a due, raccolgo l’invito alla riflessione della mia amica Roberta per approfondire alcuni punti che mi paiono di interesse generale.
La deviazione
Anzitutto, mi è chiarissimo come l’occupazione israeliana abbia la capacità di deviare nel profondo l’identità di un Paese fondato, come sapevano bene i padri fondatori, sull’imperativo «Ricordati di essere stato straniero in terra straniera».
Riecheggiano forte in me le parole del filosofo israeliano Yeshayahu Leibowitz, che ammoniva, riguardo l’occupazione cominciata nel ’67, quanto tutto ciò avrebbe portato ad una radicalizzazione verso destra di un paese fino a quel momento governato da governi laburisti e di tendenze socialiste.
Basti pensare ai kibbutzim. A dirla tutta, Leibowitz parlava esplicitamente di deriva fascista. A vedere l’oggi, quelle parole assumono un significato davvero sinistro.
Se dico che la questione palestinese non ha nulla a che vedere con quanto accade oggi nello Stato ebraico è perché voglio sottolineare che la crisi di oggi ha una natura endogena, riflettendo ovunque nel mondo, al netto delle specificità territoriali, uno stesso spartito.
A partire da un’esasperata polarizzazione politica. Israele è molto più vicino di quanto immaginiamo, non avalliamo argomenti che lo rendono una realtà a parte.
Se un ruolo ha avuto lo scontro coi palestinesi, a dirla tutta, è nell’aver accentuato la radicalizzazione oggi sfruttata dal cinismo politico di Netanyahu. Chi può pensare che missili quotidiani e attentati kamikaze non alimentino una spirale di violenza?
Prima dell’occupazione
E qui vorrei rivolgere un appello a chi, come Roberta, ha a cuore la pace. La narrazione dell’occupazione come progetto imperialista è del tutto errata e fuorviante e risente in modo inconfondibile della retorica araba. L’occupazione post ’67 nasce da dinamiche comuni ad ogni conflitto, in cui ad azione corrisponde reazione.
Gli attacchi arabi partiti nel ’48 hanno implicato la formazione di un cuscinetto protettivo che impedisca la penetrazione verso il cuore del proprio Stato.
Che, appunto adeguandosi allo status quo, qui si siano installate speculazioni politiche ad uso interno e si siano insinuate strategie da annessione seguendo l’idea di un grande Israele dal Mediterraneo al Giordano è fuori discussione.
Ma che questo fosse un dato connaturato al sionismo classico espresso nella Carta d’indipendenza è falso. Perché, piuttosto, non invitare ad un’assunzione collettiva di responsabilità?
Si ricordano sempre le risoluzioni Onu contro Israele, spesso confuse con una giustizia divina calata dall’alto, perché non ricordare anche la 181 che prescriveva il riconoscimento di due Stati e sempre disattesa dal mondo arabo, ad oggi fermo ai tre rifiuti della Conferenza di Khartum? Se non partiamo da legittimazione reciproca e assunzione di responsabilità, non facciamo altro che mascherare da pace parole di guerra.
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