L’ultima sulla griglia è stata la rettrice della Columbia University, Nemat Shafik: l’atteggiamento dimostrato in questo frangente rivela la vicinanza tra governo aziendale e autoritarismo. Una repressione che si è concretizzata con la militarizzazione del campus
Nei nostri paesi democratici si respira un clima di intolleranza. A volte liberticida. I pretesti sono diversi: l’antifascismo (di fatto un reato) e la libertà di cronaca in Italia; le critiche degli studenti (ebrei, non solo arabi o palestinesi) nelle università americane su come lo Stato di Israele intende risolvere la questione palestinese. Casi molto diversi. Metodi di “gestione” simili.
Sembra che chi detiene il potere di amministrare – chi gestisce la “governabilità” – non sopporti le critiche dei cittadini liberi. Negli Stati Uniti, i rappresentanti del Congresso e del Senato hanno istituito commissioni d’ascolto per mettere sotto torchio i rettori delle principali università del Paese e accertare quanto antisemitismo esista nei loro atenei e quali scelte adottino o intendano adottare per sradicarlo. I rettori (per una strana coincidenza, donne) con gli occhi sbarrati e intimoriti, quasi incapaci di rispondere, ma pronti ad adattarsi.
L’ultima sulla griglia è stata la rettrice della Columbia University, Nemat Shafik. Nominata neanche un anno fa, egiziana di nascita, economista, ex presidente della London School of Economics, membro di diverse fondazioni finanziarie, già vicepresidente della Banca mondiale e vice direttore generale del Fondo monetario internazionale. Una formazione e un’esperienza professionale incentrate sul management e la funzionalità: whatever it takes. L’atteggiamento dimostrato in questo frangente rivela la vicinanza tra governo aziendale e autoritarismo: l’output come criterio di legittimità.
Responsabile in primo luogo nei confronti del consiglio di amministrazione della Columbia e degli ex alunni che ogni anno si riuniscono in questo bellissimo campus per valutare come viene governato e se merita la loro generosità, la rettrice, appena rientrata dall’audizione a Washington, ha pensato bene di mostrare ai suoi vari committenti lo zelo repressivo della sua amministrazione. Ha chiamato la polizia nel campus per fare arrestare un centinaio di studenti che da due giorni si erano accampati su uno dei prati di fronte alla biblioteca.
I cancelli del campus erano già chiusi da qualche giorno, con gli agenti che controllavano gli ingressi (e grandi disagi per i docenti esterni invitati a partecipare a seminari e lezioni). Una repressione che si è concretizzata con l’espulsione degli studenti arrestati o denunciati e un campus militarizzato. Lunedì 22 sono iniziate le manifestazioni di tutti i docenti in solidarietà con gli studenti. Per settimane e mesi, la vita civile, accademica ed educativa sarà più che alterata, avvelenata.
L’autoritarismo non solo non risolve il dissenso, ma lo esaspera e, soprattutto, mina alla radice la libertà, quella che Montesquieu chiamava «tranquillità di spirito». Non si studia, non si legge, non si scrive, non si insegna con onestà, passione e competenza in un ambiente su cui pende la scure della censura e della repressione.
Contrariamente a quanto scriveva Giovanni Gentile (il filosofo del fascismo), con il “manganello” non si guida la volontà. Ne sapevano qualcosa gli esuli che negli anni del terrore nazifascista lasciarono le università tedesche e italiane per trovare rifugio nelle Americhe. Oggi sembra difficile trovare un altrove.
L’Italia, come negli anni del regime, fa da apripista. Insieme all’Ungheria, è il Paese democratico occidentale che esercita più sistematicamente la censura e la repressione.
A cominciare dalla libertà di cronaca e informazione. Il giornale Domani e il suo direttore sono sotto attacco diretto e frontale. Mentre l’opinione diventa timida, guardinga, conformista. Una storia già vista.
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