Ultimamente si legge sempre più spesso di come i ragazzi si sentano schiacciati dalla competizione scolastica. La questione non è campata per aria. C’è una sofferenza o anche solo un’insofferenza. Un fastidio per quella che ormai appare come un’imposizione: vivere con il coltello fra i denti
Anni fa lavoravo per un’istituzione americana. Ogni anno veniva organizzato un evento di natura diciamo sportiva, l’obiettivo era creare spirito di squadra. Ovviamente questo evento era detestato da quasi tutti: il genere di cose che ha sempre un che di imbarazzante, e poi lavoravamo tanto, voglio dire, una lavora mille ore alla settimana e in più deve pure andare a fare i giochi senza frontiere con i colleghi?
Un anno l’evento aveva proprio i contorni dei giochi senza frontiere, erano prove fisiche a squadre, arrampicarsi, correre su e giù in un parco all’aperto dove c’erano attrezzi. Il mio cervello ha rimosso, ma eravamo in una specie di luogo ameno con i gonfiabili. Mi ricordo che uno dei nostri capi mostrava particolare entusiasmo.
Era di quelli che sul lavoro “danno tutto”, generava molti soldi per l’istituzione e molti ne portava a casa a fine anno. Bene, bravo. Ma il punto è che non c’era una ragione particolare per cui dovesse mostrarsi entusiasta dei giochi senza frontiere. La sua reputazione professionale non aveva bisogno di essere lucidata ulteriormente mettendo l’anima nelle corse coi sacchi (o quel che era).
Eppure fu quello che più di tutti ci mise l’anima. Prese la cosa seriamente. E sfortuna volle che fosse pure nella mia squadra. «Letizia, ora li distruggiamo». Voleva vincere. Davvero. Perché? Per nessuna ragione, per principio, per questioni sue, spirituali. Non lo so.
Per natura? A oggi, è una delle persone più istintivamente competitive che abbia conosciuto in vita mia (lo ricordo anche un po’ infantile). Non penso che riuscirebbe a essere in altro modo, e penso che se nella sua vita non esistesse la possibilità della competizione forse perderebbe la testa e diventerebbe un terrorista. Non so immaginare altro.
A scuola
Ultimamente si legge sempre più spesso di come i ragazzi si sentano schiacciati dalla competizione scolastica. Basandomi sui ragazzi che conosco la questione non mi sembra campata per aria. Si percepisce una sofferenza o anche solo un’insofferenza. Un fastidio per quella che ormai appare come un’imposizione: vivere con il coltello fra i denti. Le ragioni della necessità di essere competitivi vengono ripetute senza sosta, e sono sintetizzabili nei versi di una vecchia canzone di Tonino Carotone: «È un mondo difficile, felicità a momenti e futuro incerto».
Naturalmente la competizione non nasce oggi, ma ho la sensazione che, almeno fino a una ventina d’anni fa, da giovani si potesse perlomeno scegliere se e quanto essere competitivi. Magari sceglievi di esserlo perché la tua natura era quella, io per esempio ero più competitiva della media, e pur non essendo entusiasta come quel mio ex capo non ho mai provato grandi sofferenze nelle gare. Oggi sono più pigra, sono diventata contemplativa, ma se mi tiri giù dal letto posso ancora “correre per vincere”.
Farlo non mi rovina la giornata, ecco. Mia figlia, invece, pur amando lo studio, è infastidita dalla retorica del migliore, che trova inutilmente stressante. (E io sono felice che lei sia così. Mi piace pensare che i miei figli sviluppino la loro saggezza).
Non un criterio
Oggi i ragazzi hanno l’impressione di non avere scelta. Di dover essere competitivi e basta. Ma essere competitivi non può diventare un obbligo, perché appunto c’entra molto la propria natura. Ci sono persone che vogliono vincere i giochi senza frontiere per nessun motivo se non quello di vincerli.
Buon per loro. Non so se queste persone debbano diventare il modello al quale tutti devono ispirarsi. Non so se ci servano tutte queste persone così ciecamente determinate. È utile che ci siano anche gli altri: perlomeno perché abbiamo bisogno di preservare l’ironia (quella sì in estinzione).
La natura umana è variabile e questa variabilità va rispettata. Potete ripetere fino alla morte che “è un mondo difficile”, ma il mondo non diventerà facile perché stravolgiamo i cuori della popolazione, demoralizzando la maggioranza delle persone. La competizione può essere un fatto della vita, ci saranno situazioni in cui sarà sempre necessario passare attraverso qualche gara, e dunque è sensato che le persone, anche a scuola, affrontino situazioni che mimano la rivalità.
Ma la competizione non può diventare un criterio formativo, non può essere un valore posto in cima, non può essere lo stampino dentro il quale si cerca di infilare ogni mente. Diamo valore alla variabilità dello spirito, coltiviamola, specie negli anni dell’estrema giovinezza, quando l’importante non è tanto capire cosa si diventerà, ma chi si è. Senza sapere qualcosa dell’essere è improbabile riuscire a costruire il diventare.
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