La malattia di Donald Trump - sembra un secolo fa: la positività al Covid-19 del presidente pareva essere la October Surprise, l’evento destinato a cambiare la parte finale della campagna elettorale. La pandemia sembrava il nemico sottovalutato, la crisi mal gestita, il problema quasi negato dall’amministrazione americana che chiude la stagione politica colpendo lo stesso Donald Trump. Il cigno nero vince, cambia il corso della campagna elettorale e la sua narrazione.
In molti ne hanno sopravvalutato l’impatto e sottovalutato il racconto della battaglia vinta da Trump contro la malattia, ma anche il suo messaggio: “Possiamo fare una vita normale anche con il virus”. È da inizio ottobre che per molti commentatori è parsa più plausibile una vittoria democratica con una “valanga blu”: non ha aiutato solo qualche sondaggio sbagliato, ma anche la convinzione che il “prodotto Trump” fosse meno spendibile.
Sbagliato. Trump ha ottenuto un risultato eccezionale, quale che sia l’esito finale: ha mostrato che la sua base elettorale identitaria, divisiva, non accogliente ha capacità di espansione. Nel 2016 aveva ottenuto il consenso di 63 milioni di persone, adesso raggiunge quasi i 68. Sempre dietro i democratici, che superano i 70, ma comunque allargando lo spazio del campo trumpiano e conservatore.
Anche non vincesse, si tratta di un successo. Un elettorato in espansione era difficile da immaginare: un coalizione basata sul “maschio bianco”, non sembrava capace di rosicchiare il voto latino in alcuni stati, come ha fatto, e di tenere così bene negli Stati del Midwest vinti nel 2016 quasi per caso. Ci sarà occasione di esaminare il voto in modo approfondito, ma, come ricordava ieri Mario Del Pero, «pochi avevano una simile capacità dei repubblicani di ampliare una base di votanti che non sembrava espandibile oltre una certa soglia. Tanto per intenderci, rispetto al 2016 ha preso un milione/un milione e 200mila voti in più sia in Florida sia in Texas. Alcuni indicatori c’erano, lo si era notato qualche giorno fa, soprattutto l’impennata dei repubblicani registrati per votare in anticipo».
Contromobilitazione
Trump ha mostrato un’energia che Biden (che pure ha mosso moltissimo, in termini di consenso) non ha avuto durante tutta la campagna: ha mostrato che alla mobilitazione democratica era possibile contrapporre una contromobilitazione. Ha polarizzato il messaggio, lo ha reso ancora più duro e ancora meno istituzionale – superando il limite dell’accettabile, come nel discorso di ieri su brogli elettorali – e nonostante questo ha allargato ancora la sua base.
Come è stato possibile? Forse non dovremmo guardare a Trump, ma alla condizione di “guerra civile fredda” che vivono gli Stati uniti, una condizione di carattere strutturale che gli Stati Uniti vivevano prima di Trump e vivranno dopo Trump (che sia il 2020 o il 2024), che il partito repubblicano si accomodi ancora sul trumpismo o decida di prenderne le distanze.
È la conflittualità della società americana a fare da lievito alla proposta politica di Trump, non il contrario. Gli imprenditori politici hanno un ruolo, in queste vicende: possono essere pompieri, o possono essere detonatori. Trump ha generato incendi convinto che ogni nuovo fuoco portasse più consenso. Tutta l’intellighenzia liberale – fuori e dentro il suo paese – ha creduto che quel tipo di approccio non potesse reggere alla prova del tempo e del consenso: il principio di realtà imposto dalla prova del Covid – e il test di una vita per una leadership politica – avrebbe dovuto spazzare via le basi populiste del suo consenso.
Polarizzazione
Non è stato così: evidentemente il trumpismo è solo il collante di una polarizzazione economica, sociale e culturale che difficilmente qualsiasi presidente dopo Trump potrà smontare per ricostruire unità e obiettivi condivisi da tutte le classi dirigenti di un paese: in questo senso la crisi americana parla anche ad altre democrazie, che fanno fatica a uscire da crisi simili a quelle di oltreoceano.
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