Una «follia», un errore fatale, persino «un pericolo per la civiltà occidentale»: a leggere la stampa di destra, non c’è male più grande in questo tempo di quello che va sotto il nome di ideologia o cultura “woke”.

Per un paradosso comprensibile solo alla luce dei pubblici sempre più ristretti, frammentati e polarizzati a cui si rivolge l’informazione, una parola il cui significato è oscuro ai più (un amico professore mi ha detto di averla sempre associata alla padella wok) è divenuta l’arma preferita per attaccare, in stile populista, le élite intellettuali e politiche della sinistra. Le quali tuttavia, anziché mettere in discussione questo frame discorsivo e i suoi contorni nebulosi, sembrano inclini a formulare negli stessi termini i conflitti che agitano il campo progressista.

Uso e abuso della parola

Cosa significa “woke”? Si tratta di un aggettivo – letteralmente “sveglio” – in uso da decenni nei movimenti per i diritti civili e rilanciato da Black Lives Matter. Essere “woke” vuol dire essere “consapevole”, prestare attenzione alle ingiustizie sociali, specialmente legate alla “razza”, al genere, all’orientamento sessuale. Indica un atteggiamento, dunque, più che un’agenda politica. Da tempo, tuttavia, sulla valenza positiva del termine in uso nei movimenti è andata prevalendo quella negativa che gli associano i critici, in primis i conservatori americani, da cui quelli italiani traggono volentieri le loro formule polemiche. “Woke”, come termine denigratorio, andrebbe a indicare le espressioni più intransigenti e aggressive del pensiero progressista, pronto a sanzionare violentemente ogni espressione o comportamento accusato di veicolare messaggi razzisti, sessisti, omotransfobici.

Se però si osserva l’uso che se ne fa nel dibattito italiano, si ha la sensazione che la parola sia divenuta un passe-partout per stigmatizzare (come esagerazioni o follie) tutte le preoccupazione per i vecchi e nuovi diritti civili. Per la destra è “woke” la pretesa che un’atleta registrata all’anagrafe come donna competa nella propria categoria, anche se intersessuale; è la posizione di chi pensa che l’”italianità” non abbia nulla a che fare con il colore della pelle.

Ma l’opacità del termine lo rende malleabile e adattabile al punto da poter essere impiegato come un collante identitario, per ridicolizzare o condannare ogni idea o iniziativa politica ispirata a ideali di inclusività, ogni tentativo di mettere in discussione – anche attraverso il linguaggio, la cultura, lo sport – le gerarchie di genere, sessuali, sociali, razziali che strutturano le nostre società.

I dibattiti sulla cultura “woke” agitano anche il campo avverso, quello progressista, dove – in modo del tutto speculare a quello che si osserva a destra – la confusione semantica porta a comprendere sotto lo stesso cappello tanto la condanna di atteggiamenti antiliberali diffusi nei movimenti giovanili, quanto il posto che occupano le questioni di genere, sessuali, razziali nell’agenda della sinistra.

Quando per esempio l’intellettuale liberal Ian Buruma, intervistato da La Repubblica, si rallegra per la sparizione dei temi “woke” dalla convention dei democratici di Chicago, ciò che intende è l’assenza di riferimenti a battaglie per i diritti delle persone trans o alle «battaglie identitarie», cioè legate a genere, “razza”, sessualità. Ciò segnalerebbe la volontà di riportare il partito a occuparsi di temi quali le diseguaglianze economiche, il lavoro, i problemi materiali delle persone.

Mancanza di un progetto

Ma è davvero da salutare con favore il fatto che il ritorno di attenzione – atteso, necessario – a problemi di uguaglianza sostanziale avvenga a spese di battaglie contro le discriminazioni, per l’inclusività? Il pericolo “woke” non è piuttosto diventato il nome della rinuncia, da parte progressista, ad articolare questioni materiali e culturali, diritti sociali e diritti civili, domande di riconoscimento delle maggioranze e delle minoranze, in un nuovo progetto politico? La reazione – giusta – contro i rischi di frammentazione delle battaglie identitarie deve portare a bollare come “woke” ogni presa di parola contro il razzismo sistemico o il patriarcato?

Se “woke” diventa un concetto generico, un’hegeliana notte in cui tutte le vacche sono bigie, il dibattito progressista rivela una coazione a replicare gli schemi della destra nella lettura dei conflitti politici. Rinunciando a guardare a come nuove sintesi tra rivendicazioni di classe, genere, “razza” già siano in moto nella società – si pensi ai nuovi movimenti femministi – e a farsi promotori di visioni più avanzate di giustizia.

© Riproduzione riservata