C’è il rischio che le prossime elezioni europee vedano un’ulteriore crescita delle formazioni di nuova destra radicale con il loro carico di sovranismo populista. La risposta del Pse (i socialisti europei) sembra però piuttosto debole. Si percepisce l’importanza di questo passaggio elettorale ma non si riesce finora a mettere in campo proposte adeguate alla sfida, e anche alla finestra di opportunità che si è aperta per il futuro della Ue. Quest’impressione è confermata dagli interventi dei principali leader al congresso del Pse appena tenutosi a Roma, e anche dalla lettura del Manifesto Elettorale che è stato approvato. Da un lato, vengono opportunamente ricordati i grandi valori distintivi del patrimonio europeo che il Pse fa propri: stato di diritto, democrazia rappresentativa, lotta alle disuguaglianze e alle discriminazioni di ogni tipo, sviluppo inclusivo. Dall’altro lato si resta però colpiti dai limiti degli strumenti e delle proposte per difendere e realizzare quei valori, oggi spesso messi in discussione dall’interno e dall’esterno dell’Europa.
Il problema non è nuovo. Riguarda l’architettura di fondo con cui è venuta su la costruzione europea, con alcune tappe fondamentali come la costruzione del mercato unico e poi l’adozione dell’euro. Con una formula sintetica si può dire che in tal modo si è realizzata un’integrazione economica e monetaria senza una parallela armonizzazione e integrazione a livello europeo dei regimi nazionali di protezione sociale (welfare, relazioni industriali e condizioni di lavoro), e più in generale delle politiche di bilancio (in particolare le leve fiscali) necessarie per finanziarli con politiche redistributive. A ciò sono da aggiungere i vincoli in termini di politiche di “austerità” imposti a paesi più deboli (deficit e debito). Che non possono usare più neanche la svalutazione (se adottano l’euro). Peraltro, dopo la novità e le speranze sollevate da Next Generation Eu, il nuovo patto di stabilità sembra ritornare al passato.
I motivi del percorso seguito dalla Ue sono molteplici e complessi. Un aspetto di particolare rilievo è costituito dalla persistente difficoltà dei partiti socialisti nazionali di tenere un fronte comune a difesa del mondo del lavoro europeo, schierandosi invece con gli “interessi nazionali” a breve rappresentati dai rispettivi governi. Il lavoro veniva così indebolito nel suo complesso dalla maggiore possibilità di imprese e capitali di spostarsi e di aggirare le regolazioni nazionali più onerose (tassazione, mercato del lavoro) spostandosi verso paesi più favorevoli (non solo dei veri paradisi fiscali come il Lussemburgo, l’Olanda, l’Irlanda, ma anche molti paesi dell’Est nel frattempo entrati nella Ue).
Insomma, la difesa a breve degli interessi nazionali ha in genere prevalso, sia quando i partiti di sinistra si sono trovati al governo che quando erano all’opposizione. Probabilmente per il timore di indebolire le basi elettorali tradizionali. Nei paesi con regimi di protezione sociale più estesa e radicata (come quelli nordici o la stessa Germania) è prevalsa la prudenza per timore che la fissazione di standard europei potesse abbassare il loro livello più elevato di protezione sociale. Nei paesi con protezione più debole ha pesato il timore opposto: che costasse troppo adeguare il loro regime di protezione sociale a degli standard europei.
Il risultato di questa combinazione è stato un effetto perverso: una crescita molto differenziata con risultati sensibilmente diversi tra il nord e sud dell’Europa, ma una crescita sempre meno inclusiva per tutti, perché il regime di protezione sociale ha subito ovunque un ridimensionamento grazie al rischio di exit di imprese e capitali, e grazie ai vincoli posti dalla Ue all’autonomia dei governi nelle loro politiche economiche e sociali. Ma alla lunga le conseguenze dello schieramento “nazionale” dei partiti di sinistra si sono fatte sentire anche per quasi tutta la loro famiglia politica. La crescita delle disuguaglianze, l’esodo dell’elettorato più colpito dalle crisi e dal cambiamento tecnologico, la disaffezione crescente nei riguardi della Ue hanno alimentato un declino elettorale significativo a vantaggio del populismo di destra, oltre che dell’imponente astensione.
Di fronte all’evidente declino e alle nuove sfide, che aprono anche una finestra di opportunità (Ucraina, rischi di isolazionismo americano, cambiamenti tecnologici, ambiente), bisognerebbe puntare a un cambiamento più radicale della governance della Ue e a una leadership che interpreti il cambiamento. Ma per ora almeno non sono alle viste.
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