È compito della politica occuparsi della felicità? Sarebbe d’uopo chiederselo sfogliando le pagine del recente rapporto Censis sulla condizione sociale dell’Italia.
L’istituto di ricerca ha parlato del «sonnambulismo» di cui sembrano affetti i cittadini del nostro paese, presentando dati che li ritraggono in larga misura «ciechi dinnanzi ai presagi», incapaci di reagire, delusi e impauriti. Stati d’animo che suggeriscono come gli italiani del 2023 non si sentano granché felici.
Nessuna forza politica sembra essersi particolarmente mobilitata di fronte a questo ritratto desolante. Ma se il tema appare lontano da una destra impegnata a chiamare a raccolta il sovranismo europeo, potrebbe, invece, fornire uno spunto efficace per rompere la paralisi che sembra aver colpito la sinistra. In fondo, la felicità universale non dovrebbe essere parte proprio di quella lotta per la giustizia e l’equità che ha marcato in modo così distinto la cultura politica progressista?
Se ci si pensa, il primo vagito di tale orientamento si è manifestato già secoli fa nel reclamare una “giustizia universale”, quella che vuole ogni essere umano libero e uguale. Una battaglia che parte dall’affrancamento dalla schiavitù e prosegue ancora oggi: dalla lotta per la parità di genere ai diritti per le minoranze. Un secondo stadio del suo sviluppo culturale ha visto la sinistra impegnata nelle rivendicazioni di una “giustizia sociale”, associandola a forme diverse di ripartizione economica. Una evoluzione che ha segnato il suo frazionamento, sulla base di risposte alle volte molto distanti fra loro: dall’ortodossia marxista, alle forme più liberali del socialismo democratico. Queste fasi progressiste e progressive hanno ottenuto successi capaci di andare oltre il miglioramento delle condizioni materiali dei singoli: vere conquiste civili nel nome dell’interesse collettivo che la sinistra può rivendicare con legittimità.
E se è evidente che molte di queste istanze sono ancora lontane dall’esser recepite e applicate a livello universale, i princìpi che ne costituiscono l’essenza sono ormai ampiamente condivisi: la libertà e il diritto alla prosperità sono valori sempre più riconosciuti da tutti.
Una forza progressista però non può per definizione arrestare la sua avanzata: è chiamata ad interrogarsi di continuo su frontiere e traguardi del progresso sociale, e una rinnovata attenzione per la felicità offre le premesse per un nuovo percorso di giustizia.
Questa volta non si tratterebbe di una lotta di rivendicazione: voler prospettare un unico modello come prototipo di vita gratificante è sempre stato preludio del peggior totalitarismo.
Ciò su cui sarebbe più utile riflettere è piuttosto l’approccio culturale con cui costruiamo la nostra idea di felicità: come rileva il Censis, la felicità che oggi ci manca è legata all’impossibilità di guardare al futuro con una proiezione tale da mitigare le ansie sociali.
È un tema su cui alla destra va riconosciuto il merito di aver provato a rispondere, anche solo cavalcando la paura con proposte che variano dal nazionalismo al turbo-capitalismo. La sinistra, al contrario, appare meno pronta ad avanzare idee nuove perché costretta nei limiti di un paradigma ormai consolidato: da un lato libertà e giustizia sociale intese come conquiste di un impegno pubblico e condiviso, dall’altro la ricerca della felicità che rimane affare privato e individuale. In tempi estranianti come i nostri, non sembra una proposta sufficiente.
Se la felicità non può essere imposta per legge, la politica può tuttavia offrire prospettive capaci di orientarne la ricerca. Può farlo cominciando col chiedersi se la felicità, seppur nelle sue declinazioni private, non vada intesa come un bene comune, al pari di pane e libertà. Un’utopia, come devono essere apparse a loro tempo le lotte contro la schiavitù e quelle per i diritti dei lavoratori, ma capace, ancora una volta, di mettere le persone in relazione le une con le altre. Già questo basterebbe a renderle meno infelici.
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