Siamo soliti ragionare sui grandi rivolgimenti della storia in relazione a rivoluzioni, innovazioni tecnologiche, proclami solenni… momenti iconici, simbolo della forza della trasformazione. Un’altra strada possibile è quella proposta dal matematico Igor Ansov nel suo invito a ricercare quelli che lui ha chiamato i “segnali deboli”: piccoli eventi, singolari e all’apparenza insignificanti, che ci permettono di cogliere i prodromi degli accadimenti.

Opportunità

Si tratta di una prassi ordinaria per gli storici, avvezzi a indicare, a posteriori, la promozione di un anonimo artigliere còrso al rango di generale come l’origine dell’impero napoleonico. L'esercizio è invece più complesso per la politica, chiamata a cogliere i “segnali deboli” più rilevanti tra i milioni di fenomeni originali che il presente propone.

Ma qui si cela il tratto più stimolante della riflessione di Ansov: quello proposto non è un metodo precognitivo, ma un invito a considerare i “segnali deboli” come finestre di opportunità. Di fronte alla strada che indicano, la domanda da porsi non è dunque "come prosegue”, ma “cosa può accadere” se quei segnali vengono impiegati nella costruzione di un futuro reale.

Segnali dal 2023

Perché dunque non inaugurare il nuovo anno domandandoci quali “segnali deboli” il 2023 ci ha lasciato? Prima però faremmo bene ad allontanarci dal contesto Italiano, dove ogni segnale appare come l’eterno riverbero di un passato inerziale.

L’ha dimostrato l’epilogo della saga decennale sul Mes che ha portato il parlamento a bocciarne la riforma, vincolando all’immobilità tutti gli altri paesi.

Proprio questo fatto, tuttavia, evidenzia per contrasto un altro voto altrettanto recente: quello con cui il Consiglio europeo ha deciso di avviare i negoziati di adesione all’Unione di Ucraina e Moldova.

L’unanimità, anche qui necessaria, è stata elusa con stratagemmi protocollari e assenze opportune, evitando così la scure del veto. Ed è parimenti eloquente la prontezza con cui è stato siglato in extremis l'accordo sul nuovo Patto di stabilità, propiziato da Francia e Germania e accolto da tutti i 27.

Una nuova consapevolezza

Questi prosaici escamotage — primo fra tutti, la trazione della locomotiva franco-tedesca — non sono nuovi, ma il “segnale debole” da captare è piuttosto la reazione che ne è scaturita: nessuna. In altri tempi, scelte analoghe avrebbero dato adito a strali di polemiche e accuse tra i membri.

Oggi vengono salutate con ritegno, come se fosse maturata un’inedita consapevolezza comune: la necessità di superare il “multilateralismo dell’unanimità” in favore di regole e architetture più dinamiche e meno “equilibriste”. Relazioni ancora lontane dall’avere una forma compiuta, ma già capaci di suggerire processi decisionali alternativi.

Una presa di coscienza figlia del realismo: Unione europea, Nazioni unite e altri consessi multilaterali sorti nel Dopoguerra si erano dotati di veti incrociati per rispondere alle necessità del tempo. I sei firmatari dei Trattati di Roma, così come i 51 paesi del primo nucleo dell’Onu, non rappresentavano che un’esigua porzione di mondo: quella più determinata a preservare la stabilità garantita dalla Guerra fredda.

Oggi quell’equilibrio appare fuori tempo di fronte a movimenti sempre più accelerati di espansione e contrazione delle grandi potenze, mentre nuovi attori emergono alla ribalta internazionale. L'impegno attento e laborioso che è richiesto per ottenere un consenso unanime risulta troppo oneroso di fronte alle sfide di un presente in costante mutamento. La novità è che persino la politica pare essersene accorta.

Risiede proprio in questa maturata consapevolezza il “segnale debole” che lo scenario internazionale può offrire all’inizio di questo nuovo anno. Spetterà alla politica valutare la “singolarità” di questo indizio, comprenderlo e decidere se coglierlo al fine di avanzare proposte reali. L’alternativa è continuare a sonnecchiare tra le certezze dei nostri segnali forti, rischiando di svegliarci un giorno in un mondo cambiato del tutto.

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