- Il nuovo podcast di Fedez è un progetto di marketing di una società di fintech che, tra l’altro, promuove investimenti in Bitcoin. Nella prima puntata si parla guarda caso di criptovalute e Bitcoin è presentato come un investimento promettente e non speculativo.
- Nel podcast non è mai menzionata la fintech dietro il progetto, Hype.
- Uno degli ospiti, Gianluigi Ballarani, ha lanciato il suo asset cripto il cui valore è crollato, ma comunque pontifica su prospettive e rischi del settore. I rischi degli asset speculativi come le crito non sono mai esplicitati nel podcast che invita a una generica fiducia nel settore, nonostante gli scandali.
Se si parla di criptovalute, l’unico consiglio di educazione finanziaria responsabile dovrebbe essere: non compratele. Sono soltanto un investimento speculativo privo di valore intrinseco, una bolla che si sta sgonfiando ora che le banche centrali alzano i tassi di interesse e gli investitori hanno meno soldi da buttare inseguendo qualche scommessa ad alto rischio.
Non è però questo il messaggio che passa dal nuovo podcast di Fedez, Wolf – Storie che contano, realizzato insieme o per conto a una società di fintech che offre servizi di pagamento e investimenti anche i in Bitcoin.
Guarda caso, il podcast osserva che ci sono molte scommesse rischiose e speculazioni nel mondo delle criptovalute, ma il Bitcoin invece è una cosa diversa.
Peraltro, a parlare di educazione finanziaria e criptovalute Fedez invita un “guru delle criptovalute”, Gianluigi Ballarani, che ha lanciato un suo token il cui valore è collassato da un picco di 4 dollari a 17 centesimi. Diciamo che almeno ha esperienza in materia.
La zona grigia commerciale
In nessun momento della trasmissione, audio e video, viene chiarito che c’è un legame tra un contenuto all’apparenza divulgativo e informativo e una società che finanzia l’operazione e che usa il programma per trovare nuovi clienti a cui proporre, tra le altre cose, investimenti in criptovalute.
Ci sono molti strati di complessità e opacità in questo progetto appena lanciato, quindi vediamo di sfogliarli uno per volta. Il progetto si chiama Wolf Hungry for Life, in versione corta “Wolf – Storie che contano”.
Il format del podcast audio video con Fedez protagonista si presenta come una evoluzione di quello base, molto famoso, Muschio selvaggio che mette insieme il marito di Chiara Ferragni con altri influencer e ospiti noti di vario genere (in una di queste puntate ha denigrato il quotidiano Domani, ma questa è un’altra storia).
Wolf risulta “by hypeapp”. Hype si definisce «la neo bank più smart del pianeta», una startup fintech – cioè un intermediario finanziario non bancario – «nata a Biella dall’idea di un gruppo di start-upper esperti di tecnologia e finance che volevano creare un’alternativa semplificata ai modelli bancari tradizionali».
Nel 2020 ci ha investito Illimity, la banca di Corrado Passera, che ora detiene il 50 per cento del capitale sociale (che è di 1,3 milioni di euro). L’amministratore delegato è Giuseppe Virgone, già ad di Pago Pa.
L’ultimo bilancio disponibile è quello di una start up ancora lontana dal pareggio, ma è del 2021 (16,4 milioni di perdite, dopo i 13,8 del 2020).
Dal verbale dell’assemblea degli azionisti si legge che alla fine del 2021 «Hype contava 1,5 milioni di clienti» e che la raccolta di moneta elettronica, un po’ l’equivalente dei depositi per una banca, è di 330 milioni di euro, in aumento del 50 per cento rispetto all’anno prima (la differenza rispetto a una banca è che le società di fintech non impiegano le somme raccolte in prestiti, ma funzionano più come dei salvadanai).
Tra i servizi che Hype offre c’è quello di investire i soldi in fondi comuni di tre tipi, prudente, dinamico e aggressivo.
Un conto semplice che si rivolge soprattutto ai giovani, addirittura dai 12 anni. Secondo i dati della società, il 43 per cento dei clienti ha tra i 19 e i 35 anni. Si capisce quindi la scelta di puntare su un volto come quello di Federico Lucia, cioè Fedez, e la sua società dedicata ai progetti con i brand, Doom Entertainment.
Fin qui tutto chiaro, poi si entra nella tipica zona grigia che caratterizza il business degli influencer, di quelli piccoli come delle superstar tipo Fedez.
Stavolta non si tratta di vendere smalti unisex o magliette, ma di parlare a un pubblico di giovani e influenzare – questo fanno gli influencer – il modo in cui investono i loro (magri) risparmi.
Il sito del podcast non nasconde la partnership con Hype, che però non è mai menzionata nello show. Non ci sono riferimenti di alcun genere alla natura di marketing dell’iniziativa.
Chi raggiunge il podcast attraverso Spotify, non vede il nome di Hype da nessuna parte e pensa che Wolf sia una chiacchierata tra amici, non una iniziativa promossa da una azienda fintech.
Iniziativa molto contemporanea nei modi, ma il cui valore verrà comunque misurato in termini di incremento di clienti e ricavi per l’azienda, non certo di maggiore consapevolezza finanziaria degli italiani. Anche perché l’investimento su un creator del livello di Fedez è sicuramente consistente.
Se Wolf ha una natura commerciale, allora non sembra rispettare i parametri che l’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria fissa per la riconoscibilità della comunicazione commerciale diffusa via Internet.
A cominciare dal primo punto: «La comunicazione commerciale diffusa attraverso Internet, quali che siano le modalità utilizzate, deve rendere manifesta la sua finalità promozionale attraverso idonei accorgimenti».
Ma il mondo del’influencer marketing è fatto di sfumature e nel creare progetti con un obiettivo commerciale che però non lo siano nella forma. Hype, contattata da Domani, precisa che «Fedez non ha vincoli contrattuali circa la promozione di Hype. In qualità di conduttore del podcast Wolf promuoverà il podcast stesso, attraverso il suo profilo ufficiale Instagram». Anche se il podcast sta sul sito aziendale di Hype, (hype.it/wolf/), quindi la differenza è sottile.
Alla domanda sul perché non è esplicito che si tratta di una operazione commerciale, Hype risponde: «Il podcast vuole fare solo informazione e non ha finalità commerciali, non intende proporre prodotti o servizi, tanto meno segnalare un'azienda».
Però è presentato sul sito della app, offerto dalla app, parla del settore in cui è attiva Hype ed è realizzato non con un produttore di informazione ma con uno di «infotainment».
Altra cosa rilevante che precisa Hype: il trading – incluso quello sui Bitcoin – non viene condotto dalla app direttamente, ma da partner terzi che offrono servizi di investimento a chi ha il conto con Hype ognuno di questi partner è «responsabile diretto dell’applicazione della sua normativa di riferimento». Dentro Hype sono integrati i servizi di trading di Bitpanda.
Hype dice anche che «il servizio Bitcoin disponibile nell’applicazione Hype, è uno dei tanti servizi e non è in alcun modo caratterizzante».
Ma questo è un eccesso di understatement, visto che viene esplicitamente segnalato nel press kit disponibile sul sito. E si fa riferimento specifico ai Bitcoin, non alle criptovlaute in generale.
Il problema dei cripto-influencer
Questa ambiguità è tanto più sorprendente perché riguarda un settore con il quale molti influencer si sono scottati: Kim Kardashian è stata sanzionata per 1,26 milioni di dollari dalla Sec, la Consob americana, per aver promosso il critpo-asset Ethereum Max senza rivelare di essere pagata per farlo.
«Questo caso è un promemoria del fatto che anche se celebrità e influencer promuovono opportunità di investimento, inclusi i cripto asset, questo non significa che quei prodotti di investimento siano adatti per tutti gli investitori», ha scritto su Twitter il presidente della Sec, Gary Gensler.
Un po’ in tutto il mondo si pone il tema degli influencer che promuovono criptovalute senza dichiarare bene che si tratta di attività promozionali, perché le cripto sono una trappola per gonzi nella quale cadono soprattutto ragazzi attratti dall’idea che siano qualcosa di innovativo, rivoluzionario e libertario. Dunque il pubblico degli influencer è un target ideale per gli spacciatori di cripto-fuffa.
In realtà, le criptovalute sono un bluff completo: non sono valute, perché non si possono usare per pagamenti tra privati (se non in ambiti ristretti), non hanno corso legale (perché non ci si possono pagare le tasse) e non sono riserve di valore (perché il loro “prezzo” in euro o dollari oscilla con la rapidità di un titolo speculativo).
Sono asset, non monete, ma nessuno ci investirebbe se venissero presentate come investimenti speculativi ad alto rischio di cui è impossibile di prevedere l’andamento. L’unica cosa certa sono le fluttuazioni enormi, in alto e in basso. Un investimento non così diverso da puntare alla roulette al casino.
Il messaggio dei cripto-evangelisti, secondo i quali le crypto erano un riparo dall’inflazione o dalle oscillazioni dei mercati, si è rivelato una patacca. Non proteggono dall’inflazione e crollano molto più rapidamente dei mercati tradizionali quando il vento cambia.
Forse la tecnologica blockchain un giorno servirà a qualcosa – oggi non è ben chiaro – ma di sicuro il presupposto su cui si fondano Bitcoin e le altre “valute” è falso: la scarsità prevista dall’algoritmo come garanzia del valore della criptovaluta è priva di senso nel momento in cui l’offerta di criptovalute continua ad aumentare.
Può essere limitato il numero di Bitcoin, ma è illimitato il numero di criptovalute realizzabili (questa nel podcast di Fedez viene presentata come una bella notizia, anche se è la garanzia che ogni investimento in cripto è destinato a evaporare nel nulla).
Fedez si è scelto degli strani compagni di viaggio per questo podcast nel quale lui si presenta non come un cantante o un influencer, ma come un imprenditore che discetta di banche centrali e altre cose di cui, per sua stessa ammissione, non capisce nulla (e già questo inviterebbe a una maggiore prudenza).
Modello Hudi
Con Fedez ci sono un certo Surry, youtuber da 3 milioni di follower e “investitore amatoriale nelle cripto”. E poi c’è Gianluigi Ballarani, presentato come professore all’Università di Pavia (a contratto, non è un accademico, e il suo corso è condiviso con altri due docenti, insegna digital marketing, mica finanza, ma questo non lo dicono) ed esperto del mondo cripto.
Io Ballarani non lo conoscevo, ammetto, anche se con i suoi capelli blu è uno che si fa notare. Sul web c’è un profluvio di articoli su e di Ballarani, e almeno altrettanti video. Viene presentato come esperto e imprenditore, con una start up a Londra. Cosa faccia è un po’ complicato da scoprire, il suo progetto si chiama Hudi, Human Data Income.
Dietro una lunga serie di premesse e promesse sulla possibilità di fare soldi grazie al patrimonio dei dati, c’è alla fine un token, che è più o meno come una criptovaluta con meno velleità, cioè sempre un asset digitale scarso che a settembre scorso è stato venduto nell’equivalente di una quotazione, cioè scambiando Hudi per soldi veri.
Chi lo ha comprato ha fatto un pessimo affare, ha esordito intorno a 1,5 dollari per Hudi, è arrivato a 4,15 e poi è collassato fino a 0,17 centesimi.
I commenti degli investitori non sono, comprensibilmente, entusiastici: «Hudi è una truffa, denunciatelo alla polizia, il nome del fondatore è Gianluigi Ballarani», scrive Angmgn19.
Altri si provano a consolare, dicendo che in un mercato dell’Orso, cioè al ribasso, è normale che Hudi abbia perso il 90 per cento del valore ma risalirà.
Ovviamente non c’è alcuna ragione al mondo per cui Hudi dovrebbe avere un valore o risalire (o scendere), come molti asset nel mercato dopato delle blockchain e della tokenizzazione è soltanto domanda e offerta: finché c’è qualcuno disposto a pagare per asset digitali privi di qualunque valore intrinseco e di redditività futura attesa, il prezzo regge, ma prima o poi la gente si stanca di buttare soldi.
L’unica consolazione è che anche Hudi, come tanti suoi omologhi, fa danni soltanto in una ristretta comunità di gente che ci ha lasciato i suoi risparmi, ma non ha effetti di contagio generali.
Risultano 12.000 detentori circa, i primi sei detengono il 90 per cento degli Hudi in circolazione. Agli altri le briciole.
Diciamo che quantomeno non è stato un trionfo che Ballarani possa vantare nel podcast, infatti si limita a un accenno.
Sembra strano che una app che punta su una comunicazione rassicurante come Hype si associ a Ballarani, e infatti da Hype precisano si tengono a distanza: «Hype non ha alcun rapporto con Gianluigi Ballarani, né con Hudi. Attraverso l’app Hype non è in alcun modo possibile acquistare la criptovaluta. In generale il podcast prevede altri ospiti ma in nessun caso la loro presenza rappresenta un endorsement di Hype».
Il podcast
Questa la compagnia di giro. Poi c’è il contenuto. Ballarani esordisce dicendo che «le cripto sono una forma di valore diversa da quella che conosciamo».
E questa è o una affermazione che giustificherebbe la bocciatura in qualunque corso di economia (tranne quello di Ballarani stesso, immagino) o una sorprendente ammissione: nel senso che il valore che conosciamo è quello dei soldi o di titoli convertibili in un certo ammontare di valute riconosciute, le critpo sono asset, cioè titoli di fatto, che non hanno alcun valore, e che hanno senso soltanto finché c’è qualche altro gonzo disposto a comprarle a un prezzo maggiore di quello a cui le hai pagate.
Poi ci sono un’altra lunga lista di banalità imprecise, tipo che l’euro l’hanno fatto i banchieri, che le criptovalute sono sicurissime e non ci sono frodi (chiedetelo alle vittime del crac di Ftx), che non sono usate per riciclaggio e pagamenti non tracciati a scopi poco commendevoli ecc.
Ballarani e Surry, un po’ meno Fedez, hanno un’idea di quello di cui parlano e hanno anche un chiaro messaggio da trasmettere: il mercato delle criptovalute è il futuro, i crolli, le truffe, i disastri, gli imbrogli, non devono far perdere fiducia, perché la blockchain è una cosa seria. Opinione ormai di minoranza tra chi non prende soldi da aziende del settore.
Tutte le cripto che hanno distrutto ricchezza sono eccezioni, come TerraLuna, ma Bitcoin invece è più solido, ed è destinato soltanto a crescere.
Non viene mai detto che per qualunque investitore retail, specie se giovane, investire in asset speculativi dovrebbe essere l’ultima delle cose da fare. Anzi, viene presentata come la norma, un comportamento fisiologico, perfino un po’ idealistico.
Surry teorizza che il fatto che i prezzi siano bassi deve incentivare a comprare, non il campanello d’allarme che quelli alti erano soltanto il prodotto di una bolla speculativa e di condizioni di politica monetaria troppo generose: «Se un investimento è davvero a lungo termine e credi nella tecnologia». Ballarani rafforza il messaggio: «Certo, ma non siamo razionali».
L’unica cosa razionale è non seguire i consigli di investimento di Wolf e del suo team di gente in conflitto di interessi. Incluso Surry, che ai suoi 2,9 milioni di utenti promuove criptovalute e piattaforme di exchange di ogni genere, in partnership con aziende del settore.
Di sicuro con le criptovalute qualcuno ci guadagna, come Surry e Ballarani. A spese di quelli che seguono i loro consigli.
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